mercoledì 25 aprile 2012

“La Terra Santa e i suoi luoghi santi appartengono al Cristianesimo, il Vero Israele”


“La Terra Santa e i suoi luoghi santi appartengono al Cristianesimo, il Vero Israele” (L’Osservatore Romano, 14.5.1948)





Fra pochi giorni si festeggia l'indipendenza di Israele, Yom Ha-Atzmaut,  (יום העצמאות) il 5 del mese di Iyar, 5708 che corrisponde quest'anno al 26 Aprile 2012.

La ricorrenza rievoca la proclamazione della costituzione dello Stato di Israele che avvenne otto ore prima della fine del mandato britannico in Palestina: il 14 maggio del 1948. Ma quel giorno fatidico segna anche l'inizio di qualcosa d'altro: da quel momento in poi, la parola Israele diventa un tabù per la Chiesa e per i cristiani. 

Perfino Paolo VI, primo papa in Terra Santa, riesce a non pronunciarla mai, né prima, né durante, né dopo il suo viaggio nello Stato – appunto – di Israele. Nel giorno in cui nasce lo Stato di Israele, L’Osservatore Romano rompe un lungo silenzio e palesa, con amarezza, quali fossero, siano e saranno le pretese della Chiesa in Palestina: “La Terra Santa e i suoi luoghi santi appartengono al Cristianesimo, il Vero Israele".


"Per quanto riguarda il destino dei luoghi santi e in generale degli interessi cattolici in Palestina, il Vaticano avrebbe preferito che né gli ebrei né gli arabi, ma una terza forza esercitasse il controllo in Terra Santa; in ogni caso, sapeva bene che questa soluzione era irraggiungibile e, nelle presenti circostanze, preferiva gli arabi agli ebrei", cosi' scriveva, l'8 agosto 1949, il ministro plenipotenziario della Gran Bretagna presso la Santa Sede, John Victor Perowne.

La decisione dell'Inghilterra di rimettere il Mandato in Palestina aveva messo il Vaticano in grande difficoltà; monsignor Thomas McMahon, massimo responsabile della politica vaticana in Medio Oriente, aveva scritto: "La Palestina è internazionale. Un governo internazionale della Palestina [il riferimento, oltre nel testo, era alle Nazioni Unite] è la soluzione migliore fra tutte, perchè tutela il carattere sacro della terra natale di Cristo".
Fin li', il controllo britannico della regione aveva dato ottime garanzie alla Santa Sede che pure non aveva mancato di esprimere qualche timore, quando la cosa era ancora in discussione presso la Società delle Nazioni nel 1922, per voce del suo Segretario di Stato, cardinal Pietro Gasparri, ancora una volta sulla possibilità che la posizione ebraica risultasse privilegiata.

Poi, le cose s'erano messe per il meglio, e per nessuna delle tre confessioni - cattolica, musulmana ed ebraica - c'era stato di che lamentarsi troppo, almeno non ufficialmente. Per la Santa Sede l'opzione dell'internazionalizzazione della Palestina poteva essere messa da parte, per essere tirata fuori un quarto di secolo dopo. A opporsi decisamente, allora, furono musulmani ed ebrei e non se ne fece nulla.

Il Vaticano tacque, si ritirò e lasciò fare, limitandosi a dichiararsi "del tutto indifferenti alla forma di regime che la vostra stimata Commissione [delle Nazioni Unite] potrà proporre, purché nelle vostre proposte conclusive vengano presi in considerazione e tutelati gli interessi della comunità cattolica, protestante e ortodossa".
Ma si andava delineando una minaccia davanti alla quale il Vaticano non sapeva come reagire, un'eventualità che la Santa Sede non avrebbe mai voluto dover affrontare: la nascita di Israele.

Sir Alan Cunningham, l'ultimo dei commissari britannici in Palestina, scrisse nel 1947: "La cosa peggiore, dal punto di vista cattolico, è che Gerusalemme finisca sotto il controllo ebraico". Il Vaticano cercò allora come garante il Governo degli Stati Uniti, operazione per la quale si impegnò il cardinal Francis Spellman: "Se, in ogni caso la spartizione sarà imposta – aveva scritto a George Wadsworth, ambasciatore Usa in Iraq - non bisogna perdere l'occasione di fissare un sistema accuratamente concepito e dettagliato di garanzie e tutele per i luoghi santi e per le minoranze cristiane".

Alla nascita di Israele pero' il Vaticano ruppe il silenzio e rese chiaro cio' che avrebbe voluto: "Il sionismo moderno non è il vero erede dell'Israele biblico ma uno stato laico. La Terra Santa e i suoi luoghi santi appartengono al Cristianesimo, il Vero Israele.»

Seguono anni freddi in ogni senso, fino a quando nel 1967 la Santa Sede si rende conto, insieme al resto del mondo, che gli ebrei intendono difendere il possesso di Israele ad ogni costo, e che ci riescono pure facilmente. Da lì in poi, se non guarita, la ferita è come rimossa, traslata sul piano ecumenico, sicché diventa d’obbligo una nuova posizione verso l’Antico Testamento, e Gesù diventa sempre più ebreo.

Sul piano diplomatico, non si può più tardare il riconoscimento dello Stato di Israele, e nel 1993  Giovanni Paolo II lo fa: lo riconosce 45 anni dopo la sua nascita, mentre nel 2000 riconosce lo Stato palestinese, ad ora non nato.

Sul Corriere della Sera del 15 febbraio 2000, l’incipit e la chiusa di un articolo a firma di Luigi Accattoli fanno l’affresco storico: “Yasser Arafat viene oggi a Roma, incontra Carlo Azeglio Ciampi e Massimo D’Alema e va per la nona volta in Vaticano: lì assisterà alla firma di un importante «accordo» tra l’Autorità palestinese (di cui è presidente) e la Santa Sede, che dovrebbe avere – nei confronti del mondo palestinese – lo stesso rilievo che ebbe l’accordo del 30 dicembre 1993 con Israele. [...] «Non era necessario che Arafat venisse a Roma per la firma dell’accordo», dicono ancora in Vaticano.

È Arafat che ha chiesto di vedere il Papa in questa occasione e Giovanni Paolo II ha accettato di riceverlo «come fa sempre volentieri». Secondo fonti palestinesi, l’accordo conterrebbe anche una clausola su Gerusalemme, nella quale il Vaticano si impegnerebbe a «non riconoscere» eventuali «decisioni unilaterali» di Israele su «Gerusalemme orientale»

  

È nota la posizione vaticana in materia: «Gerusalemme orientale è occupata illegalmente», disse per esempio l’arcivescovo Jean-Marie Tauran – responsabile Vaticano dei rapporti con gli Stati – il 23 ottobre del 1998, parlando proprio da Gerusalemme:
« Fin al 1967 una parte della città è stata occupata militarmente e in seguito annessa. In quella parte della città si trova la maggior parte dei luoghi santi delle tre religioni monoteiste. Gerusalemme orientale è occupata illegalmente. È dunque errato sostenere che la Santa Sede è interessata soltanto all'aspetto o agli aspetti religiosi della città e che trascura l'aspetto politico e territoriale. La Santa Sede è di fatto interessata a questo aspetto e ha il diritto e il dovere di esserlo, specialmente fintantoché la questione resterà irrisolta ed è causa di conflitti, ingiustizie, violazioni dei diritti umani, limitazioni della libertà di religione e di coscienza, timori e insicurezze personali. Ovviamente, la preoccupazione pratica e immediata della Santa Sede concerne questioni religiose, mentre ad altri ambiti – politico, economico, ecc. – essa si interessa soltanto in quanto rivestono una dimensione morale. Se alla Santa Sede non spetta entrare nelle dispute territoriali fra le nazioni, prendere partito, cercare di imporre soluzioni dettagliate, essa ha però il diritto e il dovere di ricordare alle parti in causa l'obbligo di risolvere le controversie in maniera pacifica, secondo i principi di giustizia e di equità nell'ambito legale internazionale. Nel caso di Gerusalemme, entrambi gli aspetti, quello religioso e quello politico e territoriale, sono strettamente connessi, anche se sono diversi nei loro elementi costitutivi, nei mezzi adeguati per affrontarli e per trovarvi una soluzione."
Che cosa chiede la Santa Sede per Gerusalemme?
"Innanzitutto, chiede che Gerusalemme venga rispettata per ciò che è in sé o piuttosto per ciò che dovrebbe essere, in confronto a quello che è attualmente. Ciò che io ho definito recentemente vocazione o identità della Città Santa. Gerusalemme è tesoro di tutta l'umanità. In vista di una situazione di evidente conflitto e in considerazione della rapida trasformazione della Città Santa, qualsiasi soluzione unilaterale ottenuta con la forza non è e non può essere affatto una soluzione..." Jean-Louis Tauran, segretario per i rapporti con gli stati. QUI

Nel 2006, il Papa, arriva a dire che “lo Stato d’Israele deve poter sussistere pacificamente in conformità alle norme del diritto internazionale” (udienza del 20.1.2006).

Nessuno nota che è usato il verbo sussistere invece che il verbo esistere? Sussistere è il verbo che il Concilio Vaticano II ha scelto per significare che la vera Chiesa è la (esiste come) Chiesa cattolica apostolica romana.

Lo Stato che si dice “di Israele” – lo Stato che ha per capitale Tel Aviv, perché il diritto internazionale non ha mai riconosciuto come valide le dichiarazioni di Gerusalemme capitale – “deve poter sussistere“: Gerusalemme, almeno «Gerusalemme orientale», non gli è data nel pieno governo. Un de iure, insomma. Lo Stato di Israele usurperebbe la Terra Santa facendo coincidere la sua capitale con la Gerusalemme che è capitale del “Vero Israele“.

I piani sono tenuti separati, così l’ambiguità trova soddisfazione, e la sempre reclamata pretesa sui luoghi santi tradizionalmente affidati ai cristiani (tradizione datata dalle crociate) rimane estensivamente intesa. Sicché il gesuita Samir Khalil Samir, che oggi è il più ascoltato consigliere vaticano per il Medioriente, può tranquillamente dire, nel preparare il viaggio di Benedetto XVI, che:
“il problema [israelo-palestinese] risale alla creazione dello stato d’Israele e alla spartizione della Palestina nel 1948, decisa dalle grandi potenze senza tener conto delle popolazioni presenti in Terra Santa.
È questa la causa reale di tutte le guerre che ne sono seguite. Per porre rimedio a una grave ingiustizia commessa in Europa contro un terzo della popolazione ebraica mondiale, la stessa Europa, appoggiata dalle altre nazioni più potenti, ha deciso e ha commesso una nuova ingiustizia contro la popolazione palestinese, innocente rispetto al martirio degli ebrei".
Il messaggio finale del Sinodo dei Vescovi nel Medio Oriente, invoca nel paragrafo 11 l la pace nel Medio Oriente con queste parole:
«Abbiamo avuto coscienza dell’impatto del conflitto israelo-palestinese su tutta la regione, soprattutto sul popolo palestinese che soffre le conseguenze dell’occupazione israeliana: la mancanza di libertà di movimento, il muro di separazione e le barriere militari, i prigionieri politici, la demolizione delle case, la perturbazione della vita economica e sociale e le migliaia di rifugiati. Abbiamo riflettuto sulla sofferenza e l’insicurezza nelle quali vivono gli Israeliani. Abbiamo meditato sulla situazione di Gerusalemme, la Città Santa»
Di certo le autorità della chiesa cattolica non difendono l’esistenza di Israele – che i suoi nemici vogliono annientare ed è la vera, ultima posta in gioco del conflitto – con la stessa esplicita, fortissima determinazione con cui alzano la voce in difesa dei principi “innegoziabili” riguardanti la vita umana.

Lo si è visto nei giorni scorsi. Le autorità della chiesa e lo stesso Benedetto XVI hanno levato la loro voce di condanna contro “la massiccia violenza scoppiata nella Striscia di Gaza in risposta ad altra violenza” solo dopo che Israele ha iniziato a bombardare in quel territorio le postazioni del movimento terroristico Hamas. Non prima.

Non quando Hamas consolidava il suo dominio feroce su Gaza, massacrava i musulmani fedeli al presidente Abu Mazen, umiliava le minuscole comunità cristiane, lanciava ogni giorno missili contro le popolazioni israeliane dell’area circostante.


Nei confronti di Hamas e della sua ostentata “missione” di cancellare lo stato ebraico dalla faccia della terra, di Hamas come avamposto delle mire egemoniche dell’Iran nel vicino oriente, di Hamas come alleato di Hezbollah e della Siria, le autorità vaticane non hanno mai acceso l’allarme rosso. Non hanno mai mostrato di giudicare Hamas un rischio mortale per Israele, un ostacolo alla nascita di uno stato palestinese, oltre che un incubo per i regimi arabi dell’area, dall’Egitto alla Giordania all’Arabia Saudita.

Su l’Osservatore Romano del 29-30 dicembre 2011, in un commento di prima pagina firmato da Luca M. Possati e controllato parola per parola dalla Segreteria di stato vaticana, si è sostenuto che “per lo stato ebraico la sola idea di sicurezza possibile deve passare attraverso il dialogo con tutti, persino per chi non lo riconosce”. Leggi: Hamas.

E sullo stesso numero del giornale vaticano – in una dichiarazione anch’essa concordata con la Segreteria di stato – il patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal, dopo aver deplorato la “sproporzionata” reazione militare di Israele, ribadiva lo stesso concetto: “Dobbiamo avere l’umiltà di sederci attorno a un tavolo e di ascoltarci l’uno con l’altro”. Non una parola su Hamas e sul suo pregiudiziale rifiuto di accettare la stessa esistenza di Israele.

Nessun rilievo, invece, ha dato l’Osservatore Romano alle contemporanee dichiarazioni del capo del governo della Germania, Angela Merkel, secondo cui “è un diritto legittimo di Israele proteggere la propria popolazione civile ed il proprio territorio” e la responsabilità dell’attacco israeliano a Gaza è “chiaramente ed esclusivamente” di Hamas.


L'esperto di geopolitica che più ha dato risalto alla presa di posizione di Angela Merkel, sul quotidiano la Stampa, è stato Vittorio E. Parsi, professore di Politica internazionale all’Università Cattolica di Milano e fino a pochi mesi fa commentatore di punta di Avvenire, il giornale della Conferenza episcopale italiana.

Su Avvenire, Parsi aveva scritto due anni fa, all’epoca della guerra in Libano, un editoriale dal titolo Le ragioni di Israele, nel quale diceva: “L’amara realtà è che, nella regione mediorientale, la presenza di Israele è ritenuta ‘provvisoria’, e la garanzia della sopravvivenza dello stato ebraico è riposta – per quanto sia amaro dirlo – nella sua superiorità militare”. QUI

Nella newsletter di SandroMagister  del 6.5.2009, viene rammentato che l’anno scorso “il presidente Ahmadinejad definì il Vaticano una forza positiva per la giustizia e la pace nel mondo“; e che “una sola volta, e in forma velata, il Vaticano ha stigmatizzato i ripetuti anatemi di Ahmadinejad contro l’esistenza di Israele [...] [nel] lontano 28 ottobre 2005: dopo di allora, silenzio".

Ahmadinejad è quello che vorrebbe cancellare Israele dalle carte geografiche, ma quando dice “Israele” intende dire “Stato di Israele“, e questo non dà alcun fastidio al “Vero Israele“. Insomma, non tanto da evitare di scambiare cortesie con l’Iran che impicca gli omosessuali, giusto per fare un esempio.

Anzi, può addirittura far mancare la firma del papa alla richiesta di censura ai paesi - fra i quali l’Iran - che considerano l’omosessualità un reato penale.

Sull’altro versante - quello che nel cosiddetto trialogo è il rapporto tra fratello maggiore e fratello minore - vediamo fino a che punto l’ambiguità del “Vero Israele” può fare la confusione dovuta perché un “papa pellegrino” possa presentarsi a Gerusalemme da “crociato disarmato”, visto che le crociate furono dette “pellegrinaggi armati” dai suoi venerabili predecessori:
«Nell’Antico Testamento, Dio si era rivelato in modo parziale, in modo graduale, come tutti noi facciamo nei nostri rapporti personali. Ci volle tempo perché il popolo eletto approfondisse il suo rapporto con Dio. L’Alleanza con Israele fu come un periodo di corteggiamento, un lungo fidanzamento. Venne quindi il momento definitivo, il momento del matrimonio, la realizzazione di una nuova ed eterna alleanza. In quel momento Maria, davanti al Signore, rappresentava tutta l’umanità. Nel messaggio dell’angelo, era Dio ad avanzare una proposta di matrimonio con l’umanità. E a nome nostro, Maria disse di sì» (Benedetto XVI, 20.7.2008). QUI
Sul concetto della “provvisorietà” di Israele e sul suo influsso nella chiesa cattolica è illuminante un libro-intervista uscito in questi giorni in Italia con il Custode della Terra Santa, il francescano Pierbattista Pizzaballa.

Padre Pizzaballa, in carica dal 2004, è assieme al nunzio e al patriarca latino di Gerusalemme uno dei più autorevoli rappresentanti della chiesa cattolica in Israele. Ed è anche quello che si esprime con più libertà. Ebbene, premesso che i cristiani in Terra Santa sono oggi solo l’uno per cento della popolazione e sono quasi tutti palestinesi, padre Pizzaballa ricorda che “i cristiani sono stati protagonisti fino a pochi decenni fa delle cosiddette lotte risorgimentali arabe” in Palestina, in Libano, nella Siria. Oggi essi “non contano più nulla, politicamente, nel conflitto israelo-palestinese”, dove hanno molto più peso le componenti islamiste. I cristiani hanno però conservato quel “rifiuto ad accettare Israele” che persiste in una larga parte del mondo arabo.


Una prova di questo rifiuto, aggiunge Pizzaballa, è stata l’opposizione agli accordi fondamentali e allo scambio di rappresentanze diplomatiche stabiliti nel 1993 tra la Santa Sede e lo stato d’Israele:
“Non è stato facile per la chiesa locale accettare la svolta. Il mondo cristiano di Terra Santa è prevalentemente arabo-palestinese, quindi non era così scontato il consenso. E questo rende il gesto della Santa Sede ancor più coraggioso. Ricordo molto bene i problemi che ci furono, le paure, i commenti che non erano affatto entusiastici. Sembrava quasi un tradimento delle ragioni dei palestinesi, perché da parte palestinese si è sempre vista la storia di Israele come la negazione delle proprie ragioni”
E ancora:
“Nel febbraio 2000 c’è stato l’accordo della Santa Sede anche con l’Autorità palestinese, che ha un po’ calmato quella paura”. Ma un’idea di fondo è rimasta: “Quando si dice che se Israele non ci fosse non ci sarebbero tutti questi problemi, sembra quasi che Israele sia la fonte di tutti i mali del medio oriente. Non credo che sia così. E’ un dato di fatto, comunque, che Israele non è ancora stato accettato dalla stragrande maggioranza dei paesi arabi”

Se Israele non ci fosse, o se comunque non agisse come agisce… Va tenuto conto che simili pensieri corrono non soltanto tra i cristiani arabi, ma anche tra esponenti di rilievo della chiesa cattolica che vivono fuori della Terra Santa e a Roma.

In subordine all’accettazione di Israele, permane tuttavia, in Vaticano, una ulteriore riserva. Non sull’esistenza dello stato, ma sui suoi atti. Tale riserva è espressa nelle forme e nelle occasioni più varie e consiste nel ripetere, ogni volta che scoppia un conflitto, il giudizio che gli arabi sono vittime e gli israeliani oppressori.

Anche il terrorismo islamista è ricondotto a questa causa di fondo: “Molti problemi attribuiti oggi quasi esclusivamente alle differenze culturali e religiose trovano la loro origine in innumerevoli ingiustizie economiche e sociali. Ciò è vero anche nella complessa vicenda del popolo palestinese. Nella Striscia di Gaza da decenni la dignità dell’uomo viene calpestata; l’odio e il fondamentalismo omicida trovano alimento”.

Ad esprimersi così – ultimo tra le autorità vaticane – è stato il cardinale Renato Martino, presidente del Pontificio consiglio della Giustizia e della Pace, in un’intervista all’Osservatore Romano del 1° gennaio 2009.  Non una parola sul fatto che Israele si è ritirato da Gaza nell’estate del 2005 e che Hamas vi ha preso il potere con la forza nel giugno del 2007. QUI

L'inviato del Vaticano in Terra Santa e gli arcivescovi di tre altre chiese hanno lanciato un attacco congiunto (così raro da dovere essere segnalato) contro il movimento sionista cristiano, accusandolo in particolare «di promuovere l’esclusivismo razzista e la guerra perpetua».

Le chiese del Medio Oriente appaiono spesso piuttosto vicine ai palestinesi, da cui la minoranza cristiana costituisce una parte sostanziale del loro clero in questa regione del mondo.  La "dichiarazione di Gerusalemme sul sionismo cristiano" è stata firmata dal patriarca latino Michel Sabbah (palestinese) e da vescovi delle chiese episcopali, luterane evangelica e Siriana ortodossa di Gerusalemme.

La maggior parte dei sionisti cristiani sono protestanti evangelici, e questa dichiarazione è il segno di una conflittualità crescente tra queste obbedienze opposte.

"L’agenda dei sionisti cristiani si basa sulla visione del mondo nella quale il Vangelo s’identifica all'ideologia imperiale, al colonialismo ed al militarismo", afferma la dichiarazione, che accusa i sionisti cristiani di mettere in pericolo le speranze fragili di pace in Medio Oriente.
"Noi rigettiamo gli insegnamenti del sionismo cristiano, che facilitano e sostengono questa politica, mettendo davanti l’esclusivismo razziale e la guerra perpetua", aggiunge questa dichiarazione.

La dottrina del sionismo politico fu teorizzata dal giornalista viennese Theodor Herzl nel suo libro programmatico  Der Judenstaat nel 1896. Da convinto sostenitore dell'assimilazione totale come soluzione del problema ebraico, Herzl cominciò a meditare la possibilità della creazione di uno stato ebraico in Palestina, dopo che l'ondata di persecuzioni contro gli ebrei nell'Europa dell'est e lo scoppio dell'affaire Dreyfus gli fecero prendere consapevolezza della vasta diffusione dell'antisemitismo (Cfr. F. Coen, Theodor Herzl. L'ultimo profeta di Israele e la nascita del sionismo ,Genova, Marietti, 1997, p. 41. Si veda anche N. Weinstock, Storia del sionismo. Dalle origini al movimento di liberazione palestinese , Bolsena, Massari editore, 2006)

Il sionismo herzeliano prevedeva di dare agli ebrei sparsi in tutto il mondo una sede nazionale e una propria autonomia politica in  Eretz Israel, nonché la possibilità di rivendicare la propria ebraicità, costituita dalla loro religione, cultura e tradizione. Herzl sapeva dell'importanza di tener conto del punto di vista de Vaticano nel progetto di creazione di uno stato ebraico. Per questo aveva supposto "una forma di diritto internazionale" per garantire l'"extra-territorialità" per i "luoghi santi della cristianità" ma fin dal suo primo incontro con un diplomatico pontificio, il nunzio a Vienna, Antonio Agliardi, che lo ricevette il 18 maggio 1896, fu chiaro che il Vaticano avrebbe posto non poche riserve e condizioni al progetto sionista.

Dopo aver tentato più volte di ottenere un'udienza da Pio X, Herzl riuscì ad avere un colloquio con lui pochi mesi prima di morire, grazie all'intercessione del conte Lippay, pittore austriaco conosciuto in Vaticano perché incaricato di dipingere un ritratto di Sarto.

Tre giorni prima dell'incontro con Pio X, il 22 gennaio 1904, Herzl fu ricevuto dal segretario di Stato Merry del Val, al quale spiegò che cosa voleva: ottenere "la benevolenza" della Santa Sede nei confronti della sua causa. Merry del Val, gli rispose che non vedeva come la Santa Sede avrebbe potuto prendere alcuna iniziativa, e spiegava che:
«finché gli ebrei negano la divinità di Cristo, noi non possiamo dichiararci a loro favore. Non siamo mal disposti verso di loro. Al contrario la Chiesa li ha sempre presi sotto la sua protezione. Per noi essi sono i testimoni necessari dell'evento della presenza di Dio sulla terra. Ma essi negano la divinità di Cristo. Ora, come possiamo noi dichiarare di acconsentire che essi tornino in possesso della Terra Santa, senza sacrificare i nostri supremi principi?"

Herzl provò a controbattere che i Luoghi Santi non sarebbero stati inclusi nello stato ebraico e che se la Chiesa non si fosse espressa contro il movimento sionista sarebbe stato conforme ai suoi grandi disegni politici. Ma ancora una volta il cardinale ribatté che per un pronunciamento a favore del popolo ebraico, era necessaria la sua completa conversione. QUI

La Santa Sede si opponeva ad un focolare ebraico in Palestina, specialmente così come era concepito nella DICHIARAZIONE BALFOUR inglese, del 2 novembre 1917.

I luoghi santi erano di interesse vitale per la chiesa, e una custodia ebraica non era accettabile. La loro sistemazione e salvaguardia erano questioni da determinarsi tra la chiesa e le grandi potenze.
Inoltre esistevano anche problemi teologici circa una possible sovranità ebraica in Terra Santa. La Risoluzione 181, dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite QUI   che prevedeva uno stato di corpus separatum per Gerusalemme e dintorni, era vista favorevolmente dal Vaticano.

Tuttavia la risoluzione fu subito rifiutata dagli stati arabi e, in seguito alle successive ostilità del 1948, il corpus separatum per Gerusalemme non venne più realizzato. Nel 1965, il Concilio Vaticano II promulgò una dichiarazione conosciuta con il nome di Nostra Aetate  la quale modificò fondamentalmente le relazioni della chiesa con gli ebrei, dichiarando tra l'altro che "… gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento". Inoltre, quanto è stato commesso durante la passione di Gesù (crocifissione e morte) "non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo".

Ma che cosa teme la Chiesa dal «sionismo cristiano» ? Vediamolo nelle parole di Monsignor Michel Sabbah,  patriarca latino di Gerusalemme :
"Il sionismo cristiano è un moderno movimento teologico e politico che adotta le posizioni ideologiche più estreme del sionismo, sì da diventare dannoso a una giusta pace in Palestina e Israele.
Il programma sionista cristiano contiene una visione del mondo in cui il Vangelo è identificato con l’ideologia di imperialismo, colonialismo e militarismo. Nella sua forma estrema, pone l’accento su eventi apocalittici conducenti alla fine della storia piuttosto che sull’amore e la giustizia di Cristo vivente oggi.
Noi rigettiamo categoricamente le dottrine del sionismo cristiano come insegnamenti falsi che corrompono il messaggio biblico di amore, riconciliazione e giustizia. Noi rigettiamo inoltre l’alleanza contemporanea tra i capi e le organizzazioni dei sionisti cristiani con elementi del governo di Israele e Stati Uniti che oggi impongono sulla Palestina i loro confini preventivi unilaterali e il loro dominio.
Ciò porta inevitabilmente a cicli di violenza senza fine che minano la sicurezza di tutti i popoli del Medio Oriente e del resto del mondo. Noi rigettiamo gli insegnamenti del sionismo cristiano che giustificano e sostengono queste politiche, che fanno avanzare l’esclusivismo razziale e la guerra perpetua anziché il vangelo dell’amore universale, della redenzione e della riconciliazione insegnati da Gesù Cristo.
Azioni di discriminazione stanno tramutando la Palestina in ghetti impoveriti circondati da insediamenti israeliani esclusivi. La creazione degli insediamenti illegali e la costruzione del Muro di Separazione su terra palestinese confiscata mina la vivibilità dello Stato palestinese, e anche la pace e la sicurezza dell’intera regione.
Facciamo appello alle Chiese che tacciono di rompere il loro silenzio e parlare ad alta voce di riconciliazione con giustizia nella Terra Santa." QUI

                                           

In risposta all'atteggiamento di Sabah e a quello degli altri vescovi partecipanti al Sinodo vaticano dedicato al medio oriente, incontro caratterizzato da un'aperta retorica anti israeliana, con violenti attacchi allo stato ebraico, alla sua "pulizia etnica", all'occupazione israeliana vista come un "peccato contro Dio", persino inviti a boicottare Israele, da parte dei patriarchi Michel Sabbah, Fouad Twal, Elias Chacour, Antonius Naguib e Edmond Farhat.

Farhat, già nunzio apostolico e rappresentante della politica vaticana, ha detto che Israele è un "trapianto non assimilabile" in medio oriente, "corpo estraneo, che corrode", un malanno di cui non si trova "la cura".

Il commentatore e accademico cattolico Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali all'Università Cattolica di Milano ed editorialista della Stampa ha detto:
"Questi vescovi sono duri con i deboli e deboli con i duri, perché sanno che non pagheranno alcun prezzo nelle loro critiche a Israele"
"I vescovi antisraeliani avrebbero la vita più difficile se anziché Israele denunciassero l'oltranzismo islamista che rende impossibile la vita dei cristiani in medio oriente e che è la causa principale della decrescita cristiana, non certo per la presenza d'Israele"
"Questi vescovi dovrebbero protestare con i governi dei propri popoli. Dal punto di vista politico attaccare Israele e l'islam radicale significa denunciare i nemici dei propri governanti, da Mubarak ad Assad: non si paga nulla, c'è furbizia politica e poco coraggio. Il Vaticano con il suo appeasement ha quindi sbagliato in medio oriente, è il momento di cambiare politica"

Ma il direttore di AsiaNews, ha replicato: "Politicamente i palestinesi vedono le loro difficoltà dovute all'occupazione d'Israele, il muro a Betlemme, gli insediamenti di coloni israeliani. I soldati israeliani lì fanno il bello e il cattivo tempo". Quanto al riconoscimento d'Israele come "stato ebraico", Cervellera è duro: "Una forzatura". La commentatrice e parlamentare Fiamma Nirenstein attacca il "palestinismo", una distorsione della legittima rivendicazione palestinese a uno stato: "Nel sinodo si è infiltrato un negazionismo sempre più mainstream nella politica vaticana. Un terzomondismo cristiano, associato all'odio per l'ebraismo sinonimo di imperialismo, sta dilagando poi nelle chiese mediorientali. La Santa Sede deve smontare quest'ideologia orrenda e falsa. L'impellenza più netta dell'alleanza ebraico-cristiana è la difesa della democrazia e dei diritti umani, da pericolose forze che le attaccano, prima fra tutte l'integralismo islamico che odia sia cristiani che ebrei. Cristiani ed ebrei, dice giusto il Papa, sono sullo stesso fronte nella battaglia per la vita e per la pace". Andrea Riccardi conclude così: "L'accettazione dell'ebraismo da parte dei cristiani arabi è un passaggio obbligato. Gli ebrei non sono gli Ixos, i barbari, del medio oriente". QUI


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