lunedì 23 aprile 2012

L’odissea degli ultimi 56 soldati della Brigata Ebraica

                                  

A pochi giorni da Yom Ha-atzmaut, il giorno dell'Indipendenza di Israele, ricordiamo la gloriosa Brigata Ebraica

Di Primo Fornaciari

 Molte storie di combattenti ebrei contro il nazismo sono rimaste nascoste, a volte non raccontate perché ritenute marginali e, a torto, poco importanti. Quella che sto per raccontare è soprattutto la storia di un viaggio. Viaggio prima della disperazione e poi della vittoria. Comincia in Austria, passa per la Palestina britannica, si sposta nell’Oceano Indiano, torna indietro fino in Egitto, e da qui in Europa, precisamente in Belgio. Per farmi raccontare bene questa odissea ebraica degli anni Quaranta, ho contattato un reduce della Brigata Ebraica. Il suo nome è Henry (Heinrich) Wellisch, ha settantotto anni, e vive a Toronto, dove ha diretto la Società Genealogica ebraica del Canada. “Nel marzo del 1938 i Tedeschi occuparono l’Austria” – racconta Wellisch, che all’epoca aveva sedici anni – “e la vita normale di 180 mila ebrei viennesi fu stravolta”. Dopo aver fatto diversi piani di fuga, senza riuscire a raggiungere i parenti in Canada, la famiglia di Henry viene a conoscenza che organizzazioni sioniste stanno organizzando viaggi “illegali” verso la Palestina. Il tutto sotto il vigile occhio del regime nazista, che a quel tempo lasciava ancora partire gli ebrei. Sbrigate le pratiche necessarie, e pagate le somme dovute, la famiglia Wellisch raggiunge Pressburg (Bratislava), prima tappa dell’itinerario. Il programma prevedeva la discesa del Danubio fino alla Romania, e da lì l’imbarco verso la Palestina. Ma l’inverno tra il 1939 e il 1940 fece un freddo glaciale.
“Il Danubio gelò – ricorda Wellisch – e così restammo bloccati nei campi profughi, da dove riuscimmo a partire solo nel settembre del 1940”. Nel frattempo il lavoro delle organizzazioni ebraiche andò avanti, e in totale si riunirono 3500 ebrei dall’Europa centrale, pronti ad imbarcarsi su quattro battelli. Ci volle una settimana per arrivare alla foce del Danubio dove ad
attendere i viaggiatori c’erano tre navi greche: l’Atlantic, il Pacific e il Milos. “Trovammo posto sull’Atlantic, una vecchia carretta da 1400 tonnellate, che caricò 1800 persone. Le condizioni a bordo erano terribili, il sovraccarico era tale da farla spesso sbandare sui fianchi in modo pauroso. Poco cibo e condizioni igieniche pietose, fecero sì che in molti si ammalarono e ci furono anche dei decessi. I morti furono sepolti in mare aperto. Salpammo il 7 ottobre da Tulcea e il giorno dopo arrivammo a Istanbul, dove ci fu distribuito pane e acqua. Spesso si fecero di questi scali di rifornimento, passati i Dardanelli, nelle isole greche. Poi il 16 ottobre, giunti ad Heraklion nell’isola di Creta, esaurito il carbone fummo costretti a fermarci. Con la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Grecia, del 28 ottobre del ’40, ci furono allarmi quotidiani di incursioni aeree, ma per fortuna nessun attacco. Solo l’8 novembre, grazie all’aiuto delle
comunità ebraiche greche, riuscimmo ad ottenere il carbone per poter riprendere il viaggio”.
In vista di Cipro però la nave dei profughi fu abbordata da un rimorchiatore della Marina britannica, che la obbligò a fare scalo a Limassol.
“La polizia inglese salì a bordo. Furono molto efficienti: ci rifornirono di carbone, di un nuovo capitano (quello greco aveva già tentato prima di abbandonare il comando e restare sulle coste greche), di nuovo equipaggio e scorta militare. Così attrezzati ripartimmo alla volta della “terra promessa”. Noi sognavamo: il mattino dopo, al levar del sole, avremmo visto il Monte Carmelo, cantato l’Hatikvà, e soprattutto quel viaggio terribile sarebbe finito”.

E invece era solo l’inizio…

“Proprio così. Arrivati al porto di Haifa le autorità di polizia inglesi ci dissero che, per motivi di sovraffollamento dei campi profughi, saremmo stati momentaneamente alloggiati a bordo di una grande nave di linea francese, il
Patria. I passeggeri del Pacific e del Milos, arrivati prima di noi, erano già a bordo. Erano da poco iniziate anche per noi le operazioni di imbarco quando
una esplosione terribile rovesciò la nave in mare. Annegarono oltre 250 persone. Come abbiamo saputo in seguito, le autorità britanniche avevano progettato di deportarci tutti, e la resistenza armata ebraica aveva cercato di impedire ciò, con risultati però disastrosi. Dopo questi eventi fummo trasferiti al campo di Alit, vicino ad Haifa, ma i britannici non avevano rinunciato al progetto di spedirci lontano dalla Palestina, l’avevano solo momentaneamente
rinviato”.

Eravate ormai a casa, stavate calpestando la terra di Israele. Deve essere stato molto frustrante.

“Lo fu eccome. Solo quelli che furono soccorsi e si salvarono dall’affondamento del
Patria riuscirono a restare. Tutti noi del campo di Alit, invece, eravamo destinati all’isola Mauritius”.

Attuaste forme di resistenza?

“Certo. Ci opponemmo in modo passivo. Tutti ci rifiutammo di fare i bagagli e lasciare le baracche. Restammo distesi, nudi, nelle nostre brande. Gli inglesi radunarono un gran numero di poliziotti e militari, e riuscirono a far sloggiare la gente dal campo con la forza. Ci caricarono su dei camion e ci rispedirono al porto di Haifa”.

Quegli stessi camion che tu di lì a qualche anno avresti guidato indossando una
divisa inglese… Ma torniamo al porto di Haifa.
“C’erano due navi olandesi ad aspettarci. Eravamo stanchi, delusi, e molto abbattuti. Dopo tutto quello che ci era già capitato, ora anche la deportazione in un’isola remota. Furono momenti molto tristi. Il viaggio per fortuna fu tranquillo. A Port Louis nell’isola Mauritius ci attendeva una vecchia prigione coloniale trasformata in campo maschile. Il campo femminile invece era fatto di baracche di lamiera ondulata. Appena arrivati scoppiò un’epidemia di febbre
tifoide, che in un mese si portò via circa 50 persone. Mia madre, molto provata, contrasse sia la febbre tifoide che la malaria, e in poco tempo morì.

Quale fu il trattamento nel campo?

Le condizioni furono dure, ma mai brutali. Non possiamo fare assolutamente un paragone con quello che stava capitando ai nostri connazionali in Europa. Eravamo in tutto 1600, la metà originari di Vienna, gli altri della Cecoslovacchia e di Danzica. La vita nel campo entrò presto in una sua routine. Ogni uomo aveva la sua cella, in uno dei due blocchi della prigione, ma le porte delle celle non erano chiuse a chiave. Dopo circa sei mesi alle donne sposate fu permesso di visitare il campo durante le ore diurne. Al pomeriggio tutti i detenuti potevano darsi convegno in un’area aperta vicino al campo. Un problema, certo, era il cibo insufficiente, ma soprattutto ci pesava la condizione psicologica di esser così lontani da tutto e l’insistenza, da parte delle autorità britanniche, nel ripetere che mai avremmo potuto mettere piede in Palestina. Comunque si formò una comunità piuttosto coesa. C’erano due sinagoghe, una scuola, un gruppo teatrale, una biblioteca, squadre di calcio e di pallavolo, e diversi laboratori artigianali. Si organizzavano letture, concerti, e spettacoli teatrali. Si potevano anche seguire corsi di lingua inglese e di lingua e storia ebraica.

E arriviamo così alla chiamata alle armi…
“Sì, durante tutti i quattro anni della nostra detenzione circa duecento uomini si arruolarono nelle varie armate alleate. Io mi unii alla Brigata Ebraica, e lasciai Mauritius all’inizio del 1945.


Mombasa, Kenia. I volontari da Mauritius in viaggio verso l’Egitto

Ma in quel periodo i battaglioni ebraici erano già in Italia…
“Non solo. Quando con i miei 55 compagni arrivai al centro di addestramento in Egitto, era già aprile, e la guerra stava finendo. Raggiungemmo la Brigata in Belgio, quando ormai si trovava alla fine del suo percorso attraverso l’Europa.


Camion della Brigata Ebraica ad Antwerp (Belgio)


Fui assegnato a una compagnia di trasporti, ed ebbi modo di collaborare al trasporto illegale dei profughi verso il sud del continente, agli imbarchi per la Palestina. A volte dei sopravvissuti all’Olocausto transitarono anche dal nostro
comando: fornivamo loro falsi documenti e, facendoli passare per soldati della Brigata in licenza, li mandavamo in Palestina. 


Il cerchio si chiuse: da profugo ad aiuto per i profughi. Però, se da combattenti in Europa non riusciste a sparare neanche un colpo, di lì a poco, tornati in patria…
“Sì, nel 1947 la situazione in Israele precipitò. Fummo chiamati a difendere subito la giovane patria. Fui assegnato a un reparto del Genio addetto allo sminamento. Ero nella Brigata Alexandroni, e la nostra unità partecipò a molte azioni nella parte centrale del fronte; poi nel nord del Neghev, nel combattimento vicino al cosiddetto “Faluja pocket”, nella zona di Beersheba. Nel 1949 fui congedato dall’esercito e ripresi il mio lavoro. Era un periodo molto duro e la mia famiglia in difficoltà decise di raggiungere il resto dei parenti in Canada.

Quale fu il destino dei profughi di Mauritius?

“Il campo fu smantellato nell’agosto del 1945, e i 1300 detenuti rimasti raggiunsero, nella maggior parte, la Palestina. Nel cimitero ebraico di Mauritius restarono in 128”.

E i 56 volontari della Brigata?
“Molti miei compagni caddero nella guerra di Indipendenza del ‘48”.

Ma la decisione di unirvi all’esercito inglese, a chi, cioè, aveva infranto il vostro sogno di libertà e da quattro anni vi teneva prigionieri, fu difficile da prendere? Cosa vi spinse a farlo?

“Che cosa?– risponde senza esitare Henry Wellish – Semplice, volevamo “fight the nazis!”: combattere i nazisti”.

Articolo apparso su “Le Ragioni dell’Occidente” del dicembre 2010  QUI

Aprile 1945, Ismailia (Egitto), cinque volontari da Mauritius. Il secondo da sinistra, con gli occhiali, è Henry Wellisch

Nessun commento: