venerdì 18 luglio 2014

Il dovere della speranza




di David Grossman



Speranza e disperazione. Ci sono stati anni in cui abbiamo oscillato fra le due. Oggi sembra che la maggior parte degli israeliani e dei palestinesi si trovi in uno stato d’animo nebuloso, piatto, privo di orizzonte. In un torpore ottuso, in un’auto-narcosi.

AL giorno d’oggi, in un Israele avvezzo alle delusioni, la speranza (sempre che qualcuno vi faccia cenno) è immancabilmente insicura, un po’ timida, sulla difensiva. La disperazione invece è disinvolta, risoluta. Pare che parli a nome di una legge della natura o di un assioma che stabilisce che questi due popoli saranno per sempre condannati alla guerra e non avranno mai pace. Agli occhi della disperazione chi ancora spera, o crede, in una possibilità di pace è, nella migliore delle ipotesi, un ingenuo o un visionario delirante, e, nella peggiore, un traditore che, irretendo gli israeliani con miraggi, ne indebolisce la capacità di resistenza.

In questo senso la destra ha vinto. È riuscita a instillare la sua pessimistica visione del mondo nella maggior parte degli israeliani. E si potrebbe dire che non solo ha sconfitto la sinistra, ma che ha sconfitto Israele. Non tanto perché questo suo modo di vedere le cose spinge lo stato ebraico a una condizione di paralisi su un terreno tanto cruciale per lui, dove servirebbero audacia e flessibilità e creatività, ma perché ha sconfitto quello che un tempo si sarebbe potuto definire «lo spirito israeliano»: quella scintilla, quella capacità di rinascere a dispetto di tutto. Ha annientato il nostro coraggio e la nostra speranza.

Nell’ambito più importante della sua esistenza Israele è quasi del tutto immobile, se non addirittura impotente. Stranamente, però, questa situazione non comporta una sofferenza visibile per i suoi leader e per gran parte dei suoi cittadini che sono bravissimi a compiere una netta separazione tra lo stato di cose esistente e la loro coscienza. Molti israeliani vivono così da molti anni, quarantasette per la precisione, e nemmeno troppo male, laddove di fatto, al centro del loro essere, c’è il vuoto. Un vuoto di azioni e di coscienza in cui si verifica un’efficace sospensione del giudizio morale.
Lo scrittore americano David Foster Wallace racconta di due pesciolini che, mentre nuotano in mare, incontrano un anziano pesce. Salve ragazzi, li saluta l’anziano, come va? Alla grande, rispondono i due. E l’acqua, com’è? Domanda il vecchio. Ottima, gli rispondono. Poi lo salutano e continuano a nuotare. Dopo qualche istante uno dei pesciolini domanda all’altro: dì un po’, ma cosa diavolo è l’acqua?

Ascoltate l’acqua. L’acqua in cui nuotiamo e che beviamo da quarantasette anni. Alla quale siamo talmente abituati da non percepirla. È la vita che scorre qui, ancora indubbiamente piena di vitalità e di creatività ma anche un po’ folle, con un’atmosfera caotica da saldi di fine stagione, da disturbo bipolare in cui mania e depressione si intrecciano, in cui la sensazione di possedere un grande potere si alterna a cadute di profonda debolezza. Una vita che scorre in una democrazia compiaciuta di se stessa, con pretese di liberalità e di umanesimo ma che da decenni si impone su un altro popolo, lo umilia e lo schiaccia. Una vita che scorre nel forte clamore dei media, in gran parte mirato a distrarre l’opinione pubblica e a intorpidire i sensi.

Come si può infatti resistere in una situazione simile senza distrazioni, senza un po’ di autonarcosi? Come si possono affrontare, per esempio, le conseguenze della cosiddetta “opera di insediamento” e il pieno significato di questa folle scommessa sul futuro del paese? Ascoltate l’acqua: sotto la melma nella quale sguazziamo ormai da quarantasette anni c’è una corrente profonda e gelida: il terrore di un errore storico, di uno sbaglio madornale, di ciò che, sotto ai nostri occhi, sta assumendo la forma di uno Stato binazionale, o di uno Stato di apartheid, o militare, o rabbinico, o messianico.

Nella disperazione israeliana c’è anche uno strano elemento, una specie di gaiezza per l’imminente catastrofe, o per la delusione. Una sorta di gioia maligna nei confronti di chi ha visto deluse le proprie speranze. Una gioia particolarmente distorta perché, in fin dei conti, ci rallegriamo delle nostre stesse disgrazie. Talvolta sembra che nell’animo degli israeliani frema ancora l’offesa del 1993 quando, con la firma degli accordi di Oslo, osarono credere non solo che il nemico si fosse trasformato in un partner, ma che le cose avrebbero anche potuto andar bene qui, che un giorno saremmo stati bene. È come se avessimo tradito noi stessi — dicono i rappresentanti del partito della disperazione — per essere stati tentati a credere a qualcosa di totalmente contrario alla nostra esperienza, alla nostra tragica storia, a un qualche segno distintivo del nostro destino.

E per questo abbiamo pagato e ancora pagheremo, con gli interessi. Ma per lo meno, da ora in poi, nessuno più ci coglierà in fallo, non crederemo più a niente, a nessuna promessa, a nessuna opportunità. E anche se Mahmoud Abbas si batterà con tutte le sue forze per prevenire il terrorismo contro gli israeliani, anche se proclamerà che verrà a Safed, sua città natale, unicamente come turista, anche se dichiarerà che la Shoah è il peggior crimine della storia umana e attaccherà ferocemente gli assassini dei tre ragazzi rapiti, il primo ministro israeliano Netanyahu si affretterà a versargli in testa un secchio d’acqua gelata.

È interessante notare che sebbene Israele abbia seriamente tentato la via della pace con i palestinesi soltanto una volta, nel 1993, è come se avesse deciso di rinunciare per sempre a perseguire questa possibilità dopo quel fallito tentativo. Anche qui entra in gioco la logica distorta della disperazione. La strada della guerra, dell’occupazione, del terrorismo, dell’odio, l’abbiamo provata decine di volte senza stancarci né scoraggiarci. Come mai invece ci affrettiamo a respingere definitivamente quella della pace dopo un solo fallimento?

Israele, naturalmente, ha molte ragioni di preoccuparsi, di stare in ansia. Ma proprio davanti a pericoli e minacce la disperazione e l’inazione non possono essere considerate una linea politica efficace. L’attuale governo israeliano, come i suoi predecessori, si comporta come se fosse prigioniero della disperazione. Non ricordo di aver mai sentito un discorso di seria speranza da parte di Netanyahu, dei suoi ministri e dei suoi consulenti. Nemmeno una parola sul sogno di vivere in pace, sulle possibilità racchiuse in un simile ideale, o sull’opportunità che Israele si inserisca in un intreccio di nuove alleanze e interessi in Medio Oriente. Come ha fatto la speranza a trasformarsi in un termine volgare, colpevolizzante, secondo per pericolosità soltanto a “pace”? Guardateci: il paese più forte della regione — una potenza, in termini locali — che gode dell’appoggio quasi inconcepibile degli Stati Uniti, della simpatia e del sostegno di Germania, Inghilterra e Francia, dentro di sé si considera ancora una vittima impotente. E si comporta come tale: vittima delle proprie paure, reali o immaginarie, delle atrocità sofferte in passato, degli errori di vicini e nemici.

Quale speranza ci può essere in una situazione tanto difficile? Una ce n’è, malgrado tutto. La speranza che, senza ignorare i pericoli e le numerose difficoltà, si rifiuta di vedere solo quelli. La speranza che, se le fiamme del conflitto si affievoliranno, potrebbero ancora emergere, a poco a poco, i tratti sani ed equilibrati dei due popoli sui quali comincerà ad agire il potere terapeutico della quotidianità, della saggezza della vita, del compromesso, di una sensazione di sicurezza esistenziale grazie alla quale poter crescere i figli senza la minaccia della morte, senza l’umiliazione dell’occupazione, senza la paura del terrorismo, e aspirare a un tessuto di vita semplice, familiare, fatto di lavoro e di studio.

Oggi, nei due popoli, agiscono quasi esclusivamente agenti di disperazione e di odio. Potrebbe essere quindi difficile credere che la visione che ho prospettato sia possibile. Ma una realtà di pace comincerà a forgiare agenti di speranza, di vicinanza e di ottimismo, che abbiano un interesse concreto e privo di risvolti ideologici a creare sempre più contatti con i membri dell’altro popolo. Forse, un giorno, fra molti anni, ci saranno un riavvicinamento più profondo e persino rapporti di amicizia tra questi due popoli. Tra questi esseri umani. Non sarebbe la prima volta nella storia.

Io mi aggrappo a questa speranza e la custodisco in me perché voglio continuare a vivere qui. Non posso permettermi il lusso della disperazione. La situazione è troppo grave per esse- re lasciata ai disperati e, accettarla con rassegnazione, sarebbe di fatto un’ammissione di sconfitta. Non una sconfitta sul campo di battaglia ma una sconfitta umana. Nel momento infatti in cui accettiamo che la disperazione ci governi qualcosa di profondo e di vitale in noi esseri umani ci viene negato, ci viene portato via. Chi segue una linea politica che, di fatto, non è che una sottile patina di rivestimento di un sentimento di profonda disperazione, mette in pericolo l’esistenza di Israele. Chi si comporta in questo modo non può sostenere di «essere un popolo libero nella nostra terra». Può forse cantare la Tikvah, la Speranza, il nostro inno nazionale, ma nella sua voce, al posto della parola «speranza», echeggerà «disperazione ». «Una disperazione di duemila anni».

Noi, che da moltissimi anni chiediamo la pace, continueremo a insistere sulla speranza. Una speranza consapevole e che non si dà per vinta. Che sa di essere, per israeliani e palestinesi, l’unica possibilità di sconfiggere la forza di gravità della disperazione.

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