venerdì 18 maggio 2012

Le cause della crisi energetica di Gaza, e alcuni interessanti risvolti

Quali sono gli interessanti risvolti di questa vicenda?
Una rivendicazione nel contesto della polemica fra l'autorità di Hamas e il governo egiziano, dell'appartenenza del popolo palestinese allo stesso popolo egiziano (e saudita) principalmente. 

 

Braccio di ferro Hamas-Fatah
Gaza nella morsa del settarismo
Andrea Dessì
13/04/2012


Da due mesi la Striscia di Gaza è alle prese con una profonda crisi energetica. In seguito ad un aumento di controlli da parte delle autorità egiziane, dal febbraio scorso gli approvvigionamenti di carburante, che in passato giungevano a Gaza attraverso la rete di tunnel sotto il confine con l’Egitto, si sono interrotti. Per il milione e mezzo e oltre di palestinesi residenti nella Striscia, la mancanza di carburante, e quindi di elettricità, sta avendo ripercussioni pesantissime.


Contrabbando 

Ancora una volta la popolazione di Gaza è rimasta ostaggio della spaccatura ideologica che da cinque anni contrappone Fatah, il partito laico-nazionalista capeggiato da Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), al partito di resistenza islamico Hamas, al potere a Gaza dal giugno 2007. Da settimane le due fazioni palestinesi si scambiano durissime accuse, ritardando i negoziati,con la mediazione egiziana, per il ripristino delle forniture energetiche. Tutte le parti interessate, inclusi gli egiziani, stanno usando la questione energetica come strumento di pressione politica, mentre i residenti di Gaza da settimane subiscono interruzioni di elettricità che durano dalle sei alle diciotto ore al giorno. 
All’origine della crisi vi è la decisione, assunta da Hamas più di un anno fa, di porre fine alle importazioni di carburante che attraverso i valichi di frontiera controllati da Israele, arrivava all’unica centrale elettrica della Striscia, che copre il 60% del fabbisogno energetico di Gaza. Il partito islamista, che giudicava troppo costosa l’operazione, ha preferito aumentare la propria dipendenza dal carburante contrabbandato dall’Egitto attraverso i tunnel sotterranei. 
Acquistando carburante a basso costo in Egitto e rivendendolo a Gaza a prezzo maggiorato, Hamas realizza ottimi margini, che si aggiungono alle entrate provenienti dalle tasse imposte su ogni merce che passa attraverso i tunnel sotterranei tra Egitto e Gaza. Il governo di transizione egiziano, vicino all’esercito e composto da personaggi legati al regime di Mubarak, accusa Hamas di sciacallaggio.


Pressioni e riconciliazione 
L’Egitto ha dato la propria disponibilità a rifornire Gaza di carburante, a patto che venga trasportato attraverso il valico di Karem Shalom al confine tra Gaza e Israele. Il carburante andrebbe acquistato dall’Autorità nazionale palestinese (Anp), che tradizionalmente copre gran parte dei costi energetici di Gaza attraverso i fondi della comunità internazionale. In questo caso il carburante verrebbe tassato dall’Anp che quindi si aggiudicherebbe cospicui proventi. Hamas ha però rifiutato l’offerta, chiedendo alle autorità egiziane di aprire una rotta diretta tra il Cairo e Gaza. 

Hamas accusa sia l’Egitto che l’Anp di collaborare con Israele per tenere sotto pressione le autorità di Gaza. Anche i Fratelli Musulmani d’Egitto, reduci dalla vittoria nelle elezioni parlamentari, si erano detti favorevoli all’apertura di una rotta di commercio tra l’Egitto e Gaza. I Fratelli stanno cercando di convincere Hamas ad avvicinarsi alle posizioni, più moderate, di Khaled Meshal, capo dell’ala politica di Hamas residente all’estero, che nel maggio 2011 e il febbraio scorso aveva firmato accordi di riconciliazione con Fatah. 

La strategia di Hamas a Gaza punta dunque sul sostegno dei Fratelli Musulmani egiziani per stabilire un precedente che porterebbe alla completa riapertura del valico di Rafah, l’unico passaggio di confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto. 

Nel maggio 2011 il nuovo governo di transizione egiziano aveva annunciato la riapertura del valico di Rafah al solo transito pedonale (e con sostanziali restrizioni), rifiutandosi però di estenderlo anche allo scambio di merci, per non sollevare Israele - questa la motivazione - dalle sue responsabilità di paese occupante.

Senza fine 
Di recente l’Egitto ha annunciato l’inizio dei lavori per la costruzione di un oleodotto che consentirà il trasferimento di carburante direttamente dal Cairo a Gaza, ma nel frattempo Hamas dovrà collaborare con l’Anp per acquistarlo da Israele.

A Gaza, intanto, la situazione sta peggiorando. La Croce rossa internazionale è dovuta intervenire per fornire il carburante necessario al funzionamento degli ospedali, e il primo aprile tre bambini tra i quattro e i sei anni sono morti in un incendio causato dall’uso di candele in casa. Come se non bastasse, secondo dati dell’Onu, 80 milioni di litri di scarichi fognari parzialmente trattati finiscono nel Mediterraneo ogni giorno a causa della mancanza di carburante per gli impianti di purificazione.

A Gaza, Hamas è alle prese con crescenti contestazioni per la gestione della crisi. Secondo l’Agenzia France Presse sono state arrestate più di 100 persone con l’accusa di aver attribuito a Hamas la responsabilità della crisi. In questo contesto si fa sempre più remota la prospettiva di una riconciliazione tra le due fazioni palestinesi.

Tutti gli occhi sono puntati sul Cairo, dove è in atto un braccio di ferro tra i Fratelli Musulmani e le autorità militari. Hamas spera che una vittoria dei Fratelli Musulmani possa riavvicinare il Cairo a Gaza. L’Anp, invece, vorrebbe ripristinare la propria influenza su Gaza attraverso un accordo di unità nazionale con Hamas che preveda la nomina di Mahmud Abbas (capo dell’Anp) a presidente e primo ministro di un governo di transizione. 

L’Egitto, da sempre principale mediatore tra le fazioni palestinesi, continua ad adoperarsi per un accordo, pur non nascondendo la delusione per l’atteggiamento intransigente delle autorità di Gaza, che non appaiano interessate ad una reale riconciliazione con Fatah.

Mentre Gaza sprofonda nel buio, non s’intravedono spiragli per uscire da quest’ennesima crisi politica palestinese. 

Andrea Dessì è laureato in storia e politica del Medio Oriente presso la School of Oriental and African Studies di Londra, e ha ottenuto la laurea specialistica in Conflict, Security and Development presso la King’s College London. Collabora con The Heptagon Post, giornale online di politica internazionale, e attualmente è collaboratore presso lo Iai.








giovedì 17 maggio 2012

La nazionalità palestinese e le dure repliche della storia





Tre giorni dopo aver destituito d’autorità il governo d’unità nazionale Hamas-Fatah guidato da Ismail Haniyeh e aver varato il governo d’emergenza affidato a Salam Fayyad, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) compariva lo scorso 20 giugno davanti al comitato centrale dell’Olp e pronunciava un discorso durissimo (Al-Hayat Al-Jadida, 21.06.07). Con parole di estrema severità, Abu Mazen denunciava il golpe di Hamas nella striscia di Gaza, le feroci brutalità commesse contro i palestinesi avversari, il complotto ordito contro la sua stessa persona, il piano per creare un “emirato dell’oscurantismo e dell’arretratezza”. A un certo punto, nella foga della requisitoria, l’erede di Yasser Arafat esclamava: “Persino le chiese non sono state risparmiate: è stata saccheggiata e data alle fiamme una delle più antiche chiese di Palestina che esisteva molto prima che arrivassimo noi”. Testuale: “molto prima che arrivassimo noi”. Ma noi chi?
Dopo averci ripetuto per anni e anni che il popolo palestinese è l’unico originario, l’unico che esiste come tale sulla terra di Palestina sin dai tempi dei cananei, tutt’a un tratto il loro massimo esponente politico dice “noi” per intendere i musulmani arrivati in quella regione con la conquista araba. Improvvisamente, la voce dal sen fuggita del leader dell’Olp, di Fatah e dell’Autorità Palestinese ci rivela che egli sa di essere il rappresentare di un’identità nazionale (“noi”) sopraggiunta e sovrapposta alle popolazioni e identità precedenti.Nella spaccatura che si è consumata fra Gaza e Cisgiordania e nella durezza dello scontro in corso fra musulmani jihadisti e arabi nazionalisti, il lapsus di Abu Mazen non accade per caso, e ripropone un interrogativo legittimo anche se politicamente scorretto: quali autentiche radici può vantare l’identità nazionale palestinese?



Interrogativo reso ancora più drammatico e urgente dalla propensione delle leadership palestinesi, ormai storicamente dimostrata, a trascinare se stesse e la loro gente in scontri arabi intestini di inusitata violenza, da quelli del 1936-39, al disastro del settembre “nero” ‘70 in Giordania, alla guerra per bande in Libano e durante le due intifade. Non possono non venire in mente per analogia le guerre civili in Libano, in Iraq, in Sudan e i dubbi che sollevano sulla natura di quegli stati nazionali.“In vari posti del mondo – scrive Ofir Haivry, del Shalem Center di Gerusalemme – confini arbitrariamente fissati dalle potenze coloniali delineano nazioni che in pratica non esistono. Esiste forse una “nazione sudanese” o una “nazione irachena”? O non stiamo piuttosto parlando in questi casi di tribù, gruppi e persino popoli diversi, con stili di vita e valori molto distanti fra loro, raggruppati a caso, e che a causa di questo pagano ancora oggi un alto prezzo di sangue?”.Anche i confini del Mandato Britannico sulla Palestina, dal quale i palestinesi traggono il loro nome, vennero arbitrariamente fissati, come quelli dei paesi vicini, sulla base di interessi coloniali, in alcuni casi in modo del tutto fortuito. “Se il confine fosse stato fissato in modo appena un poco diverso – si domanda Haivry – forse che gli arabi di Marjayoun, nel Libano meridionale, sarebbero stati palestinesi? O gli arabi di Tarshiha, in Galilea settentrionale, sarebbero stati libanesi? E gli arabi di Transgiordania, che inizialmente faceva parte del Mandato sulla Palestina per diventare poco dopo regno di Giordania, sono palestinesi o giordani?”.Il che, per inciso, configura il noto paradosso per cui, in quella regione, Israele, il paese che più di altri ha titoli di statualità nel radicamento storico-linguistico-culturale e nel diritto internazionale, è anche l’unico di cui venga messa sistematicamente in discussione la legittimità.Il leader degli arabi del Mandato Britannico fu il mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini che si considerava un leader pan-arabo e si mise alla testa di una variegata alleanza di clan, tribù e interessi locali uniti per lo più dall’ostilità verso gli ebrei, imponendo il proprio comando con la violenza e l’assassinio dei rivali.



Dopo la fine del Mandato, nella striscia di Gaza sotto regime egiziano e nella Cisgiordania annessa alla Giordania non si registrò praticamente alcuna espressione culturale né alcuna rivendicazione politica di una originale identità nazionale palestinese. Nota Haivry: “Il solo obiettivo che riscuoteva consensi e spingeva all’azione, tanto che a tale scopo vennero create Fatah e Olp, era l’istituzione di uno stato arabo al posto di Israele”.Dopo il 1967 l’unificazione di fatto sotto amministrazione israeliana creò l’illusione di un’identità nazionale unitaria. Ma le caratteristiche della leadership di Yasser Arafat non fecero che replicare quelle del mufti: autocrazia di un uomo solo, costruita sull’ostilità verso Israele, fondata su equilibri di clan e sulla persecuzione dei rivali.I successivi ritiri di Israele – da tutti i maggiori centri abitati palestinesi, poi da tutta la striscia di Gaza – e la morte di Arafat hanno riportato il nodo al pettine. “Può darsi – riflette Haivry – che, quando uno stato esiste entro confini artificiali per un lungo periodo di tempo, abbia senso preservarlo nonostante sia privo di una genuina identità nazionale. Ma la Palestina Mandataria è durata solo trent’anni e ha cessato di esistere sessant’anni fa: l’odio verso Israele di per sé non può supplire alla mancanza di una consolidata identità nazionale, e questo dato di fatto dovrebbe indurci a porre nuove domande circa la vera natura del conflitto e i modi per risolverlo”.Come ebbe a dire Golda Meir con grande schiettezza, “esistono dei profughi palestinesi, ma non esiste un popolo palestinese. La distinzione non è semantica. Lo dico sulla base di una vita intera passata a discutere con innumerevoli nazionalisti arabi che escludevano categoricamente dalle loro enunciazioni qualunque nazionalismo indipendentista arabo-palestinese” (New York Times, 14.01.76). Affermazione di una coerenza che ci pare esemplare. Se ad esempio – per assurdo – fra un po’ di anni, grazie a un’insistente campagna propagandistica (non coadiuvata in questo caso, e per fortuna, da fiumi di petrodollari né campagne terroristiche) dovesse diventare d’uso corrente riferirisi al “popolo padano” come ad una primigenia identità nazionale, chi scrive si sentirà in diritto e in dovere di ricordare che così non è, che si tratta di un artefatto, che milioni di persone vivono, è vero, nelle terre padane, e tuttavia non esiste nessun “popolo padano”.
Nella foto in alto: Miliziani islamisti palestinesi calpestano l’immagine del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) nel terminal di Rafah (alla frontiera con l’Egitto) durante i giorni del golpe di Hamas nella striscia di Gaza.


M. Paganoni per NES n. 7, anno 19 - luglio 2007

mercoledì 16 maggio 2012

Gli ebrei rifiutarono il ricatto antisionista



Paolo Mieli

La deflagrazione tra Israele e il Partito comunista italiano avvenne tra la fine di maggio e i primi giorni di giugno del 1967. A fare da detonatore per l'esplosione, fu la «guerra dei Sei giorni» con cui lo Stato ebraico reagì ad una minaccia di distruzione e sconfisse il fronte arabo, che rappresentava una popolazione venticinque volte superiore a quella israeliana. Già la sera del 28 maggio — pochi giorni prima del conflitto — si tenne a Roma, al portico d'Ottavia, una veglia per Israele nel corso della quale l'architetto Bruno Zevi, il quale fino a pochi anni prima si definiva «azionista-comunista», disse: «Io non desidero polemizzare con i comunisti più del dovuto, perché noi tutti sappiamo che i comunisti sono stati in molte occasioni a fianco della minoranza ebraica italiana, perché sappiamo che ogni volta che, nel passato, questo quartiere ha subito offese antisemite, i comunisti sono stati tra i primi a venire qui e a portarci l'aiuto della loro solidarietà». Poi, con un crescendo di voce, («senza rancore, senza astio ma con chiarezza», precisò), puntando l'indice verso le Botteghe Oscure, aggiunse: visto che, come dite, «c'è il pericolo che gli Stati Uniti sostengano Israele, perché, per evitare che tale pericolo si concretizzi, non premete sull'Unione Sovietica affinché sia l'Unione Sovietica ad aiutare Israele?» Domanda fintamente ingenua, dal momento che Zevi quella sera sa benissimo (e lo dice apertamente) che «l'Unione Sovietica, oltre a non aiutare Israele, istiga e arma i Paesi arabi che vogliono distruggerlo». E racconta di «molti comunisti che si trovano in uno stato drammatico di imbarazzo». A quel punto alcuni militanti del Pci chiedono di poter prendere la parola. Ma l'intellettuale ex azionista Aldo Garosci pone la condizione che essi strappino in pubblico la tessera del loro partito.



Furono, quelli, giorni effettivamente di grande imbarazzo per quei pochi, pochissimi, intellettuali e dirigenti del Pci che, pur tra dubbi e cautele, vollero schierarsi dalla parte di Israele. Il direttore del quotidiano filocomunista «Paese Sera», Fausto Coen, fu costretto a dimettersi dopo che il capo della sezione esteri dell'«Unità», Alberto Jacoviello, era andato a rimproverare il «giornale fratello» per la linea eccessivamente benevola nei confronti di Israele e, in un'esplosione d'ira, aveva distrutto le matrici pronte per le rotative. Jacoviello godeva del pieno sostegno dell'allora direttore dell'«Unità» Gian Carlo Pajetta, che si era schierato senza esitazioni dalla parte dell'egiziano Nasser. E Pajetta divenne bersaglio di lettere oltremodo polemiche da parte di ebrei. Scrisse Mario Pontecorvo: «Io non credo che lei nell'animo possa veramente appoggiare Nasser che, è noto, distribuisce il Mein Kampf tra i suoi ufficiali». Vittorio Da Rodi fu ancora più diretto: tra i soldati di Israele, «che tu oggi accusi di aggressione, vi sono coloro che combatterono in Italia per la liberazione della tua e mia patria dal fascismo, prima ancora che tu, Pajetta, potessi fare il partigiano». Gli autori di queste e moltissime altre missive, però, più che gli esponenti del Pci prendevano a bersaglio gli «ebrei comunisti», accusati di essere simili ai loro correligionari de «La Nostra Bandiera», il foglio israelita che negli anni Trenta si era schierato con il regime fascista. Bersaglio privilegiato di questa offensiva fu il senatore comunista (ebreo) Umberto Terracini, definito dalla rivista «Shalom» «associato alla campagna antisemita dei suoi compagni di Polonia». Altro bersaglio fu Franco Fortini (ebreo solo da parte di padre, che nel 1940 aveva lasciato il cognome originario, Lattes, per prendere quello della madre) per aver dato alle stampe un libro, I cani del Sinai (De Donato), nel quale si accusavano le «dirigenze politiche israeliane» di essere «compartecipi» degli «interessi economico-militari americani e, subordinatamente, inglesi» in Medio Oriente. Ma l'uomo dello scandalo, se così si può dire, fu il senatore comunista Emilio Sereni, fratello di Enzo, grande esponente del sionismo italiano morto a Dachau nel 1944. Emilio (Mimmo) Sereni disapprovò «certe affermazioni» dei leader arabi, ma esortò a non dimenticare «la responsabilità che Israele porta per aver discriminato e cacciato un milione e trecentomila arabi e per aver partecipato all'aggressione del 1956, quando sarebbe stata una scelta lungimirante la solidarietà con Nasser che nazionalizzava la compagnia di Suez». Anche a lui giunse una pioggia di lettere da parte di correligionari. Dario Navarra: «Vede senatore, certe volte il nome che si porta può essere un peso, soprattutto se è un nome bello, legato ad una tradizione, ad un'idea; forse è una delle tragedie della civiltà moderna quando i figli rinnegano i padri ed i fratelli si tradiscono a vicenda». Renato Salmoni (reduce da Buchenwald, tiene a precisare di non essere «un accanito sionista»): «Trovo che per una questione di opportunità e diciamo di buon gusto, lei farebbe meglio a tacere». Suo cugino, il succitato Mario Pontecorvo, accusò Sereni di «servilismo fazioso» nei confronti del Pci e si spinse a chiedere che venisse «espulso da ogni forma di manifestazione ebraica».


Questo genere di persone, scriveva ancora «Shalom», «devono solamente decidere se, in quanto uomini e in quanto ebrei, debbano appoggiare un gruppo ebraico minacciato di sterminio, oppure se valga per loro la pena, come comunisti, di accettare il sacrificio dei loro fratelli sull'altare dell'ideologia». E quando Arturo Schwarz, uno di questi israeliti difensori delle ragioni degli arabi, aveva avuto l'auto sfregiata da una svastica e da una scritta inneggiante ai palestinesi, «Shalom» aveva dedicato all'accaduto un articolo irridente fin dal titolo (Le piace Schwarz?) in cui si scriveva: «Forse qualcuno lo aveva preso per un ebreo vero».
A questi tormenti del 1967 sono dedicate le pagine centrali del libro di un brillante allievo di Salvatore Lupo, Matteo Di Figlia, Israele e la sinistra, pubblicato da Donzelli. Correttamente, però, il volume fa risalire la prima rottura tra ebrei e mondo comunista non già al 1967, bensì al 1952. Ed era stata una rottura dolorosa, dal momento che fino ad allora il rapporto tra socialisti, comunisti ed ebrei era stato molto stretto. Il 7 gennaio del 1946, quando partì da Vado Ligure la nave «Enzo Sereni» piena di israeliti che emigravano in Palestina, c'era un gruppo di ex partigiani rossi a vigilare sulle operazioni di imbarco. E nell'ottobre dello stesso 1946, dopo l'attentato dell'Irgun (organizzazione militare della destra sionista) all'ambasciata britannica di Roma, carabinieri e polizia sospettarono — è scritto in rapporti di due anni dopo — il coinvolgimento di persone del Pci «che mirerebbero a far tramontare definitivamente l'influenza inglese in quella regione». Anche il Partito socialista italiano, in particolare Pietro Nenni, fu in prima linea nel difendere le ragioni di Israele e a esaltare i kibbutz come un modello di socialismo. Molti ragazzi di sinistra, anche non ebrei, decisero di trascorrere un periodo in Israele a lavorare in qualche kibbutz. Il futuro leader di Potere operaio Toni Negri, all'epoca giovane socialista, scelse («inseguendo una gentile fanciulla») di trascorrere un anno in un kibbutz del Mapam e lì in Israele (ne ha scritto in Pipe-line. Lettere da Rebibbia, edito da Einaudi nel 1983 e riproposto da DeriveApprodi nel 2009) gli parve di poter finalmente vivere «pratiche tanto elementari, quanto radicali di comunismo»: «C'era, mordeva il reale quest'utopia; era concreta», fu la sua impressione. Socialisti e comunisti sostennero sui loro giornali l'emigrazione ebraica (è stato ritrovato un manifesto del Pci raffigurante una nave che fa rotta verso la Palestina, in cui si invitano militanti e simpatizzanti a raccogliere fondi a favore degli ebrei) e, nel 1948, dopo la nascita di Israele, Umberto Terracini ne chiese immediatamente — a nome del Pci — il riconoscimento.


Nel mondo ebraico era nato nel 1945, su iniziativa di Joel Barromi e, poi, Marcello Savaldi, il Centro giovanile italiano del movimento sionista pionieristico «Hechalutz», che non nascondeva le proprie simpatie per il comunismo. Nella mozione di un congresso di «Hechalutz» (1947), l'organizzazione dichiarava di unirsi «ai lavoratori italiani nello sdegno per l'eccidio del Primo maggio a Portella della Ginestra, riaffermando in questa occasione la solidarietà con i partiti progressisti d'Italia». In un articolo del loro giornale si poteva leggere: «Disgraziatamente per noi, impariamo a nostre spese che l'ebraismo della diaspora non conosce proletariato». E ancora: «Mancano quei tipi quadrati di operai delle grandi officine, minatori, muratori, che nascono con l'istinto della lotta di classe e della solidarietà operaia; gli operai dalle schiene piegate che lavorano e studiano, vogliono conoscere e si ribellano al mondo che li fa lavorare, non li abbiamo mai visti tra noi ebrei; l'ebreo ricco che vende tappeti in un negozio di lusso e l'ebreo povero che vende cartoline su una bancarella non sono così lontani». Di passo in passo «Hechalutz» giunse ad auspicare «che il nostro Primo maggio non si limiti a richiedere l'unità dei lavoratori ebrei, ma miri ad una unità sempre più stretta coi lavoratori arabi».

Ma venne, come dicevamo, il 1952. In molti paesi dell'Est europeo, ricostruisce Di Figlia, si tennero «una serie di processi sommari a imputati ebrei, tra cui spiccò quello a Rudolf Slansky, ex leader del Partito comunista cecoslovacco, impiccato lo stesso anno». Poi fu il 1953, quando a Mosca furono arrestati i «camici bianchi», medici ebrei accusati di aver complottato contro Stalin, e solo la morte del dittatore evitò l'avvio di una persecuzione antisemita per la quale si stava creando un clima adatto. In quegli stessi mesi un misterioso attentato all'ambasciata sovietica a Tel Aviv provocò la momentanea rottura delle relazioni diplomatiche tra Urss e Israele. In Italia socialisti e comunisti si schierarono senza esitazione dalla parte dell'Urss: «Il processo contro la banda Slansky», scrisse «l'Unità», «ha dimostrato come i dirigenti dello Stato d'Israele avessero posto il loro Stato e le loro rappresentanze diplomatiche all'estero, in particolare in Europa orientale, al servizio dei servizi di spionaggio americani». Ma qualche ebreo, come Amos Luzzatto, che nel dopoguerra si era iscritto al Pci, cominciò ad avere dei dubbi e, pur restando a sinistra, lasciò il partito.


Non così Guido Valabrega, un israelita di Torino che nel 1950 si era trasferito in Israele in un kibbutz di Ruchama e da lì scriveva ai suoi familiari che la rottura dei rapporti diplomatici tra Urss e Israele era tutta da imputare al governo di Tel Aviv, «anticomunista quale non lo è nemmeno De Gasperi» (nell'agosto del '53 Valabrega fu espulso dal kibbutz e raccontò poi di esserne uscito «cantando l'Internazionale e l'inno sovietico»). E neanche «Hechalutz», che accusò l'ebraismo italiano di «strumentalizzare i processi d'oltrecortina in chiave anticomunista». Quando poi, dopo la morte di Stalin, i «camici bianchi» furono prosciolti, «Hechalutz» ironizzò: «Era così comodo poter puntare sull'Idra sovietica all'attacco, la campagna antisemita era così utile agli stessi ebrei occidentali per la loro politica che oggi, sotto la patina di una sostenuta soddisfazione, si sente il rimpianto per un'occasione che va in fumo». E tutto proseguì come prima. Nel 1955, in occasione dell'anniversario della rivoluzione d'Ottobre, il giornale di «Hechalutz» pubblicò un appello inneggiante alla patria del socialismo che si concludeva con queste parole: «W l'Urss! W lo Stato di Israele! W l'amicizia eterna tra Israele e l'Urss».

Poi però fu il 1956, con la guerra per il canale di Suez: l'Urss (impegnata a reprimere la rivoluzione ungherese) si schierò con decisione dalla parte di Nasser contro Israele. Il Pci prese le stesse posizioni. Anche se, ha notato Marco Paganoni in un bel libro, Dimenticare Amalek (La Giuntina), «l'Unità» all'epoca difendeva ancora lo Stato ebraico «scindendo recisamente le sue responsabilità da quelle di Francia e Gran Bretagna». Stavolta a sinistra si distinse il Partito repubblicano. Ugo La Malfa criticò l'intervento militare di Gran Bretagna e Francia, ma difese Israele contro Nasser. E in Parlamento l'ex ministro repubblicano della Difesa, Randolfo Pacciardi, puntò l'indice contro i comunisti: «Là, in Israele, avete un popolo che si è svenato per la sua libertà. In Egitto avete un dittatore che voleva consolidare la sua potenza proprio con le armi dell'Unione Sovietica. È da ieri che quel dittatore andava predicando lo sterminio del popolo ebraico. Ma anche il popolo ebraico, se non siete diventati persino razzisti, ha diritto alla vita come tutti gli altri».

Tra i comunisti la simpatia per Israele cominciò ad attenuarsi. Ha notato sempre Paganoni che già nel febbraio del '57 sull'«Unità» si cominciò a parlare di «mire espansionistiche» dello Stato israeliano. E, all'epoca del processo contro Adolf Eichmann (1961), «l'Unità» scelse di mettere in risalto le connivenze con il nazismo degli imprenditori tedeschi (Dietro i Lager di Adolf Eichmann stavano i trust dei Krupp e dei Farben, fu il titolo del 22 marzo 1961; L'eccidio in massa degli ebrei fu anche un affare economico, proseguiva l'8 aprile); stabilì poi un paragone tra l'operato di Eichmann e quello delle potenze occidentali in Africa e accusò il cancelliere tedesco dell'epoca, Konrad Adenauer, di aver favorito il reinserimento nei ranghi istituzionali di molti ex nazisti.
Così, quando si giunse alla «guerra dei Sei giorni», a difendere — da sinistra — Israele (repubblicani a parte) restò quasi solo il socialista Pietro Nenni, che si spinse ad accusare due importanti leader democristiani, Amintore Fanfani e Aldo Moro, di aver assunto, per via delle loro cautele in merito a ragioni e torti di quel conflitto, «posizioni tecniciste» che rispondevano a «un certo vuoto morale». Sull'«Avanti!» un esponente dell'ebraismo romano, Jacob Schwartz, lodò pubblicamente la «coerenza» mostrata da Nenni. Dalle colonne dell'«Unità» un leader allora in ascesa, Enrico Berlinguer, accusò Nenni di essere un epigono di «quel vecchio filone di interventismo sedicente di sinistra che ha finito sempre per colludere con quello reazionario». In quegli stessi giorni si consumò una divisione nel settimanale «L'Espresso», dove il direttore Eugenio Scalfari — pur con una grande attenzione all'uso delle parole — decise di prendere le distanze da Israele provocando una crisi con alcuni importanti collaboratori, tra cui Bruno Zevi e Leo Valiani. «Se gli anticomunisti sbagliano e sbagliano gli americani, è nostro obbligo dirlo con tanta maggiore fermezza in quanto si tratta non di errori degli avversari ma di errori nostri», scrisse Scalfari il 16 giugno del 1967 in una lettera personale a Valiani.


Stesso genere di argomentazione — ma a parti invertite — fu quello usato da Pier Paolo Pasolini che in una lettera su «Nuovi Argomenti» scrisse: «L'unico modo di essere veracemente amici dei popoli arabi in questo momento non è forse aiutarli a capire la politica folle di Nasser, che non dico la storia, ma il più elementare senso comune ha già giudicato e condannato? O quella dei comunisti è una sete insaziabile di autolesionismo? Un bisogno invincibile di perdersi, imboccando sempre la strada più ovvia e disperata? Così che il vuoto che divide gli intellettuali marxisti dal Partito comunista debba farsi sempre più incolmabile?» Ma Pasolini sbagliava previsione. Quelli che lui definiva «intellettuali marxisti» — ad eccezione dei radicali ricostituiti sotto la guida di Marco Pannella — si schierarono pressoché all'unanimità su posizioni simili a quelle di Scalfari. Persino ebrei comunisti (come il già citato Valabrega e, a Roma, il consigliere comunale Piero Della Seta) sostennero, racconta Di Figlia, la validità della posizione filoaraba dell'Urss e di altri Paesi socialisti, affermando che Israele «aveva attaccato per risolvere una crisi economica ormai evidente». Tra le poche eccezioni, quelle pur sorvegliatissime del giurista Luciano Ascoli e di Umberto Terracini, entrambi convocati «privatamente» dai vertici del Pci per rendere conto delle loro posizioni.

Opportunamente Di Figlia tiene a precisare che è improprio ricondurre per intero al Pci questo contenzioso. Così come non si può «adottare l'unico canone interpretativo della cieca obbedienza a Mosca, abbastanza valido per gli anni Cinquanta, ma non per il periodo successivo». Il Pci «fu anti-israeliano mentre era impegnato in un farraginoso ma progressivo allontanamento dall'Urss, e molti gruppi nati dopo il '68 che espressero giudizi durissimi verso Israele, osteggiavano apertamente il Pci e il modello sovietico». La scelta di Israele di mantenere i territori occupati nel 1967 fu avversata anche da molti esponenti del Partito socialista. A questo proposito, scrive Di Figlia, «è rilevantissimo il caso del Psi negli anni della segreteria di Bettino Craxi: questi non permise il prevalere di una corrente massimalista, scommise tutto su una svolta socialdemocratica e finalmente libera da ogni retaggio marxista; nello stesso periodo il Psi accentuò la vocazione filopalestinese». Non ci fu, dunque, «un'automatica correlazione tra critica a Israele e ortodossia comunista, né tra quest'ultima e l'antisemitismo di sinistra, che, nato da posizioni antisioniste, non va letto come il cangiante lascito di quello nazifascista, di quello sovietico, o dell'antigiudaismo cattolico».
Ciò detto, dopo il 1967 i rapporti tra Israele e sinistra italiana — eccezion fatta per Pietro Nenni, Ugo La Malfa, dopo di lui Giovanni Spadolini, Giorgio La Malfa e l'intero gruppo dirigente repubblicano, intellettuali d'area inclusi — andarono sempre più peggiorando. Le linee dell'esposizione sono quelle già tracciate da Maurizio Molinari in La sinistra e gli ebrei in Italia (1967-1993) edito da Corbaccio. La sinistra quasi per intero sposò la causa palestinese. Quella extraparlamentare, all'epoca influente, appoggiò i fedayn più radicali. Giorgio Israel ha così raccontato una cena estiva con un gruppo di amici: «A un certo punto, tra una chiacchiera e l'altra, un "compagno" toscano prorompe in un'invettiva violentissima contro gli ebrei: capitalisti, sanguisughe, imperialisti, assassini del proletariato e chi più ne ha più ne metta. Reagisco indignato, definendo il suo linguaggio come fascista e razzista, cerco di trovare ampia solidarietà e … sorpresa, mi ritrovo nell'isolamento più assoluto. Nessuno mi difende, nemmeno i più cari amici». Ai tempi dell'attentato di Settembre nero all'Olimpiade di Monaco (1972) la solidarietà per gli atleti israeliani trucidati fu assai trattenuta. Stefano Jesurum, all'epoca militante del Movimento studentesco, riferisce nel libro Israele nonostante tutto (Longanesi) di essere corso quel giorno dalla sua «famiglia» politica, ma di essere stato gelato con queste parole: «Su questi temi voi compagni ebrei è meglio che stiate zitti». Nel volgere di pochi anni non valse più, mai, neanche l'evidenza dei fatti. Israele aveva sempre torto. Sempre. Nel 1973, in occasione della guerra dello Yom Kippur, dopo l'attacco dell'Egitto «l'Unità» sostenne che il «vero aggressore» era Israele per il fatto che non aveva ancora «restituito i territori occupati nel '67». Anche se, con il passare del tempo, i dirigenti del Pci — in privato, però — cominciarono a prendere le distanze dai regimi arabi. In un libro di memorie (Con Arafat in Palestina. La sinistra italiana e la questione mediorientale, Editori Riuniti) l'allora responsabile della commissione esteri del Pci, Antonio Rubbi, ha raccontato che, negli anni Ottanta, dopo un viaggio in Libano, Siria e Iraq, Giancarlo Pajetta gli confidò di aver incontrato «una massa di imbroglioni e ipocriti». «Il Pajetta che ancora all'inizio degli anni Settanta parlava di "nazione araba" e di "socialismo arabo"», fu l'impressione di Rubbi, «semplicemente non esisteva più».


Certo, qualcosa iniziava a cambiare. Giorgina Arian Levi, nipote acquisita di Palmiro Togliatti (in quanto figlia di una sorella di Rita Montagnana, prima moglie del segretario del Pci) passa da posizioni decisamente filosovietiche e anti-israeliane alla denuncia, nel 1977, della propaganda contro Israele in Unione Sovietica, propaganda che, scrive, «sorprende per l'assenza di concrete argomentazioni politiche e per lo sconfinamento dall'antisionismo all'antisemitismo». «La sedimentazione antisemita che risale alla Russia zarista», prosegue, «non è del tutto morta, anche sessant'anni dopo la gloriosa rivoluzione d'Ottobre».
Discorso a parte merita poi un'altra ribellione allo spirito dei tempi, alla quale Di Figlia dedica pagine molto interessanti. È quella del Partito radicale di Pannella. E di Gianfranco Spadaccia che, in un congresso, polemizza apertamente con quanti hanno la tentazione di sposare le iniziative filopalestinesi dell'ultrasinistra: «Vogliamo costruire una politica che abbia come bussola di orientamento… i diritti umani, la democrazia; basta battersi romanticamente per le lotte di liberazione che poi producono oppressioni più atroci». I radicali, osserva Di Figlia «non furono i neocon italiani, ma furono i primi a difendere le ragioni israeliane usando un tassello centrale della proposta neocon, cioè quello dei diritti umani». Su questa base, «il sostegno a Israele divenne un tratto distintivo del Pr negli anni di Pannella molto più di quanto non lo fosse stato in quelli di Mario Pannunzio». Bruno Zevi, in dissenso con la politica di Craxi tutta a favore di Arafat, prendeva la tessera del Partito radicale, di cui sarebbe divenuto presidente onorario. Ma il clima generale in Italia restava quello di cui si è detto prima. Per la sinistra, quasi tutta, gli israeliani dovevano sempre essere criticati e agli ebrei toccava il bizzarro (bizzarro?) compito di recitare in pubblico il «mea culpa» per quel che si decideva a Gerusalemme e a Tel Aviv.

Nel 1982, quando Israele invade il Libano, scatta immediata e unanime la condanna da parte dell'intera sinistra. Un gruppo nutrito di ebrei italiani si affretta a sottoscrivere un manifesto, Perché Israele si ritiri, che reca in testa la firma di Primo Levi. Dopo il massacro di palestinesi a Sabra e Chatila (da parte dei falangisti libanesi che agiscono indisturbati per l'omesso controllo degli israeliani), i toni nei confronti di Israele si fanno più violenti. Per una strana (strana?) proprietà transitiva tali «critiche» vengono estese a tutti gli ebrei. Un corteo sindacale depone una bara sui gradini del Tempio di Roma. Poco tempo dopo, un attentato alla stessa sinagoga della capitale provoca la morte di un bambino: Stefano Taché. Questo orribile delitto provoca un soprassalto: da quel momento cambia qualcosa di importante, di molto importante. Viene allo scoperto un sentimento — fino ad allora quasi nascosto — di «appartenenza» orgogliosa al popolo ebraico: Natalia Ginzburg, Furio Colombo, Anna Rossi Doria, Fiamma Nirenstein (che pure aveva firmato l'appello di cui si è appena detto, criticato da suo padre, Alberto Nirenstein), Mario Pirani, Anna Foa, Janiki Cingoli, Clara Sereni, Gabriele Eschenazi rifiutano una volta per tutte — quanto meno chi fino a poco prima si era prestato — di recitare la parte degli «ebrei buoni» chiamati sul palco quando c'è da accusare Gerusalemme.

Un ruolo fondamentale nell'accompagnare questa presa di coscienza lo svolge un intellettuale torinese, Angelo Pezzana (che stranamente nel libro di Matteo Di Figlia non è neanche citato). Ancor più importante, nel favorire questo risveglio di coscienza tra gli ebrei di sinistra, la rivista «Shalom» sotto la direzione di Luciano Tas. Dalle colonne di «Repubblica» Rosellina Balbi, con un coraggioso articolo, incita gli ebrei di sinistra a non sentirsi più in dovere di «discolparsi» per quel che ha fatto Israele. Piero Fassino imprime al Pci una svolta nella politica estera che implica l'eliminazione del pregiudizio, una maggiore attenzione (di volta in volta) alle ragioni di Israele e ai torti del modo arabo: «Non si è posta sufficientemente in rilievo la centralità della questione della democrazia e dei diritti umani nei paesi mediorientali», riconosce, echeggiando le antiche posizioni del Partito radicale, in un'intervista ad Antonio Carioti che significativamente compare su «La Voce Repubblicana».

Il resto è storia recente, ben ripercorsa nelle pagine conclusive del libro di Matteo Di Figlia. Storia di anni in cui si è continuato, da sinistra, a criticare questo o quell'atto del governo israeliano, pur con toni duri, ma con una minore indulgenza a quel genere di antisionismo che per decenni aveva coperto vere e proprie forme di antisemitismo. Anche se il tic di chiedere ai «compagni ebrei» di essere in prima fila quando c'è da attaccare Israele è ben lungi dall'essere scomparso del tutto.

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lunedì 14 maggio 2012

"La linea di partizione non sarà altro che una linea di fuoco e sangue"

La guerra arabo-israeliana del 1948 ha avuto luogo in due fasi. Durante la prima fase gli inglesi erano nel paese. Non era fisicamente possibile per gli ebrei espellere gli arabi con la forza. Le forze ebraiche erano deboli e gli inglesi impedivano massicce operazioni. Tuttavia, tra 100.000 e 300.000 profughi fuggirono entro il 15 maggio 1948, prima che gli inglesi lasciassero la Palestina.

Il 29 novembre 1947, l'Assemblea Generale dell'ONU voto' la partizione del territorio sotto il Mandato Britannico conosciuto come Palestina, dividendolo in uno stato arabo e in uno stato ebraico, attuando le disposizioni di diritto internazionale, incorporate nel League of Nations British Mandate for Palestine (Si veda la risoluzione ONU 181: Partizione della Palestina.). Gli arabi si opposero alla decisione delle Nazioni Unite e alla creazione dello Stato ebraico. Il segretario della Lega Araba, Abdul Rahman Azzam Pasha, disse, dopo il voto delle Nazioni Unite, "La linea di partizione non sarà altro che una linea di fuoco e di sangue." (Ahron Bregman e El-Tahri, Jihan, Israele e gli arabi, TVbooks, NY 1998 p., 28).

Immagini della guerra di indipendenza di Israele

La Lega Araba, considero' i piani per la persecuzione di massa degli ebrei, che furono poi attuati e portarono alla massiccia espulsione degli ebrei dai paesi arabi. Gli Arabi iniziarono i disordini a Gerusalemme, attaccando le città ebraiche e i trasporti, mentre gli inglesi stavano a guardare. Gli ebrei contro attaccarono, e gli arabi cominciarono a lasciare la Palestina, in quanto la loro leadership disorganizzata si stava sbriciolando. Già il 30 gennaio 1948, il giornale di Jaffa, Sha'ab, avvertiva, "In testa alla nostra quinta colonna ci sono coloro che abbandonano le loro case e le imprese e vanno a vivere altrove .... Alle prime difficoltà se la danno a gambe per sfuggire il fardello della lotta. "

L'avvertimento fu inutile. L'esodo dei profughi arabi continuava. Nelle grandi città, Haifa e Yaffo-Tel-Aviv, agli attacchi arabi ai quartieri ebraici, risposero contrattacchi efficaci degli ebrei. Alla fine di aprile, gli arabi fuggirono Yaffo e Haifa in massa, nonostante le suppliche degli inglesi e delle autorità israeliane. Secondo il Console degli Stati Uniti in Haifa, "... i  leader arabi, dominati dai mufti locali" spingono "tutti gli arabi a lasciare la città, e un gran numero lo ha già fatto." (Aubrey Lippincott, Console Generale degli Stati Uniti in Haifa, 22 aprile 1948)

Allo stesso modo, Jamal Husseini, il nipote del Gran Mufti Hajj Amin El Husseini, riferi' alle Nazioni Unite che, "Gli arabi non volevano sottomettersi a una tregua, ma piuttosto preferirono abbandonare le loro case, i loro averi e tutto ciò che possedevano e lasciare la città, questo è in effetti quello che hanno fatto.». (Jamal Husseini, presidente ff del Comitato Palestina araba Superiore, parlando alle Nazioni Unite Consiglio di Sicurezza. Documenti ufficiali del Consiglio di sicurezza (n. 62), 23 aprile 1948, p. 14.)

Time Magazine del 3 maggio 1948, riferi' di Haifa:

     "L'evacuazione di massa, indotta in parte dalla paura, in parte da ordini di leader arabi, ha ridotto il quartiere arabo di Haifa in una città fantasma. Dietro gli ordini arabi c'era più che orgoglio e sfida . Sopprimendo i lavoratori arabi, i loro leader speravano di paralizzare Haifa. I leader ebrei, speranzosi hanno detto: "Torneranno in pochi giorni. Già alcuni stanno tornando. "

Il Times di Londra del 5 maggio 1948 ha riferito:

    "Le strade arabe sono stranamente deserte e, evidentemente, seguendo il misero esempio  della classe più abbiente c'è stato un esodo anche da Gerusalemme , pur se non nella stessa misura di Jaffa e Haifa."

 Nonostante l'opposizione araba, il 14 maggio 1948, mentre gli inglesi stavano lasciando la Palestina, David Ben Gurion dichiarò lo stato indipendente di Israele. La Dichiarazione di Indipendenza di Israele recitava:

"Nel bel mezzo di un'aggressione deliberata, abbiamo fatto appello ai cittadini arabi dello Stato di Israele per tornare alle vie della pace e fare la loro parte nello sviluppo dello Stato, con la piena e uguale cittadinanza e la rappresentanza dovuta nei suoi organi e nelle istituzioni - provvisori o permanenti. Offriamo la pace e l'amicizia a tutti gli Stati vicini e ai loro popoli, e li invitiamo a cooperare con la nazione indipendente ebraica per il bene comune di tutti".


La reazione degli stati arabi fu molto diversa. Il 15 maggio, a dispetto delle Nazioni Unite gli stati arabi attaccarono Israele. Secondo il giornale egiziano, Akbar al Youm del 12 ottobre 1963, il 15 maggio 1948, "il Mufti di Gerusalemme chiese agli arabi della Palestina di lasciare il paese, perché i paesi arabi erano in procinto di entrare e combattere al loro posto . " Secondo il New York Times del 16 maggio 1948, il segretario della Lega Araba, Abdul Rahman Azzam Pasha dichiaro' "questa sarà una guerra di sterminio e un massacro di cui si parlerà come dei massacri mongoli e crociati".

Secondo il palestinese Nimr al Hawari, nel suo libro "Sir Am Nakba" (il segreto della Nakba), pubblicato a Nazareth nel 1965, il Primo Ministro iracheno Nuri  al Said dichiaro':

    "Noi distruggeremo il paese con le nostre armi e cancelleremo ogni luogo dove gli ebrei possano trovare rifugio. Gli arabi dovrebbero condurre le loro mogli e i bambini in aree sicure, fino a quando i combattimenti saranno cessati."

Questa sembrerebbe essere la prova inequivocabile che gli arabi cominciarono la guerra, e che i leader arabi in realtà favorirono la fuga dei rifugiati all'inizio della guerra. Gli egiziani invasero Gaza e Israele, e bombardarono Tel Aviv. Il giordani invasero Gerusalemme, per giustificare la loro aggressione, la Lega Araba rilascio' una dichiarazione:

"I Governi degli Stati arabi sottolineano, in questa occasione, ciò che hanno già dichiarato prima della Conferenza di Londra e alle Nazioni Unite, che l'unica soluzione del problema palestinese è la creazione di uno Stato unitario palestinese ... (Per cui) i luoghi santi saranno conservati ed i diritti di accesso ad essi garantiti".

Ottavo (paragrafo):

"Gli Stati arabi, in modo deciso,  dichiarano che (il loro) intervento in Palestina era dovuto solo a queste considerazioni ed obiettivi, e che mirava a niente di più che porre fine alle condizioni generali (in Palestina). Per questo motivo, hanno grande fiducia che la loro azione avrà il sostegno delle Nazioni Unite; e (che sarà) considerata come un'azione volta alla realizzazione dei suoi obiettivi e di promozione dei suoi principi, come previsto nella sua Carta".

Gli arabi erano "fiduciosi" che l'ONU li avrebbe aiutati a sfidare una risoluzione delle Nazioni Unite! La dichiarazione continuava:

"L'aggressione sionista ha provocato l'esodo di più di un quarto di milione degli abitanti arabi dalle loro case, costringendoli a cercare rifugio nei paesi vicini arabi. Gli eventi che hanno avuto luogo in Palestina hanno smascherato le intenzioni aggressive e i disegni imperialisti dei sionisti, come le atrocità commesse contro gli abitanti arabi amanti della pace, soprattutto in Deir Yasin, Tiberias e altri".

Secondo tutte le fonti, non ci furono atrocità a Tiberiade. L'Haganah reagi' agli attacchi arabi e gli arabi partirono volontariamente. La rivelazione che un quarto di milioni di arabi erano già fuggiti dalla Palestina, mentre gli inglesi ne avevano ancora il controllo, è una chiara indicazione che la fuga dei rifugiati non era dovuta a espulsione forzata, dal momento che la "forza" a disposizione degli eserciti clandestini ebraici era trascurabile mentre c'erano 100.000 truppe britanniche in Palestina.
(....)


 Non c'è modo di poter mai ottenere giustizia totale e completa nel mondo reale. Coloro che insistono sulla "pace con giustizia" dovrebbero prendersi cura di ciò che sperano. Il nazista Gran Mufti di Gerusalemme sfuggì la punizione a Norimberga perché fu liberato dai francesi, apparentemente al fine di interferire con la politica britannica in Palestina. Morì nel suo letto. Le decine, forse centinaia, di migliaia di ebrei uccisi dai nazisti a causa del Mufti non riusciranno mai a ottenere giustizia. I profughi ebrei dei paesi arabi non avranno mai, probabilmente, speranza di essere risarciti per le proprietà che hanno perso, o per i secoli di umiliazione sotto il dominio musulmano. Gli ebrei di Gerusalemme, che morirono durante l'assedio per le bombe, la fame, lamalattia o le pallottole del  nemico non otterranno giustizia. Gli arabi innocenti, e c'erano sicuramente innocenti, che sono morti o sono stati espulsi nel 1948 non otterrano giustizia. I romani, gli arabi, i crociati, i turchi e i britannici che hanno invaso e ricoperto la terra di Israele non hanno mai affrontato la giustizia . La grande ingiustizia che si sta facendo agli ebrei di Israele e agli arabi della Palestina è la perpetuazione del conflitto e dell'odio, in nome di obiettivi impossibili e biasimevoli.

(ARTICOLO ORIGINALE QUI)