sabato 26 maggio 2012

Ancora sul doppio linguaggio: disastro o vittoria?


Il problema del "doppio linguaggio" è una realtà sotto gli occhi di chiunque si occupi delle tematiche Mediorientali informandosi non solo tramite i media occidentali, ma anche tramite quelli locali. Palestinian Media Watch in particolare da anni denuncia questo comportamento inaccettabile da parte Palestinese. 

Appare evidente infatti che per trattare la questione ebraica ed israeliana, viene utilizzato un linguaggio decisamente epurato, improntato a toni di ragionevolezza e continui riferimenti ai diritti umani, alla pace, alla teoria della convivenza dei due popoli e due Stati per quanto riguarda la comunicazione verso l'Occidente. Tutt'altro atteggiamento viene utilizzato invece quando i destinatari dei messaggi mediatici sono i popoli arabi o la comunità musulmana nel mondo: qui emerge tutto l'odio razziale contro gli ebrei, il negazionismo, l'apologia del martire e le effettive intenzioni di cancellare dai territori della "grande nazione araba" lo Stato di Israele, per sostituirlo con uno Stato Palestinese e Musulmano (ideologia che ben è stata definita con il termine PALESTINISMO e che si oppone, per distruggerlo, al sionismo).

Solo di recente il problema del doppio linguaggio è stato sollevato per la prima volta in sede internazionale di fronte all'UNESCO, quando si scoprì che in un periodico finanziato dall'UNESCO stesso e destinato ai ragazzi palestinesi era stata pubblicata una glorificazione di Hitler inquanto sterminatore di ebrei.

La cosa incredibile è che queste glorificazioni, l'indottrinamento al disprezzo dell'ebreo e l'incitamento alla distruzione dello Stato di Israele non sono realtà poi tanto nascoste, infatti si trovano esplicitamente illustrate nei libri di testo comunemente utilizzati dai bambini palestinesi, le varie televisioni strabordano di esempi simili, per non parlare delle famose vignette "satiriche" antisemite e violente che hanno amplissima diffusione in tutto il mondo arabo.

Verrebbe da chiedersi come sia possibile questa cecità generalizzata della nostra società occidentale, vorremmo pensare che dopo i fatti dell'UNESCO la sensibilità media si sia innalzata, invece ancora una volta la tecnica del doppio linguaggio viene utilizzata sfacciatamente e nessuno sembra fare una piega.

Il caso che vogliamo illustrare oggi riguarda i 1.550 condannati palestinesi in sciopero della fame nelle carceri israeliane. Almeno un paio di questi, che vengono intenzionalmente chiamati "prigionieri" ma che più giustamente dobbiamo chiamare "condannati", sono oggi in fin di vita a causa del prolungato digiuno che si sono auto-imposti. 

Il 24 Maggio 2012 Abbas organizza a beneficio dei media internazionali una conferenza stampa per lanciare un messaggio ufficiale condiviso dai rappresentanti dell'OLP e da rappresentanti di Fatah. 
Di fronte ai giornalisti (leggi qui) asserisce che dichiarerà il "disastro nazionale se uno qualsiasi dei 1.550 prigionieri palestinesi in sciopero della fame nelle carceri israeliane dovesse morire". E prosegue precisando che riterrà  "il governo israeliano pienamente responsabile per la vita e il destino dei prigionieri palestinesi in digiuno", e minaccia che "non verrà tollerata" neanche la morte di un, cosiddetto, prigioniero.

Se nella dichiarazione diretta alla comunità internazionale Abbas mette l'accento sul fatto che la morte di questi condannati scioperanti rappresenterebbe una "catastrofe", tanto da rendere necessaria la dichiarazione di "disastro nazionale", tutt'altro registro viene utilizzato dagli scioperanti stessi che solo pochi giorni prima dichiarano 
“Se muoiono, la vittoria sarà più grande”, perché “In ogni caso, Israele verrà ritenuta responsabile” (leggi qui). E mentre gli scioperanti esplicitano la natura del ricatto immorale, nel frattempo il movimento per la jihad islamica ha già minacciato di riprendere gli attacchi missilistici da Gaza su Israele se uno dei prigionieri dovesse morire.

Allora, spiegateci un attimo, la morte di questi condannati palestinesi sarà un "disastro nazionale", una "catastrofe", o non sarà piuttosto considerata un giusto sacrificio dei buoni martiri islamici e quindi una "vittoria" che consentirà di riprendere con virulenza gli atti terroristici contro la incolpevole popolazione israeliana?


Israele è responsabile! Disastro o vittoria?














Ramallah: Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha annunciato ieri il "disastro nazionale" se uno qualsiasi dei 1.550 prigionieri palestinesi in sciopero della fame nelle carceri israeliane dovesse morire.

Abbas ha ricordato che due degli scioperanti, Bilal Diab e Thaer Halahla, sono entrati nel loro 75esimo giorno senza cibo, e diversi gruppi per i diritti internazionali e governi si sono detti preoccupati che i prigionieri possano morire se continuano a rifiutare il cibo."La situazione dei prigionieri è estremamente pericolosa", ha detto 
Abbas in una riunione del comitato esecutivo dell'OLP.
"Alcuni di loro corrono il rischio di un danno reale, e questo sarebbe un disastro nazionale che nessuno può tollerare. Spero e prego Dio che nessuno si faccia male perché sarebbe una grave catastrofe."
Il comitato ha invitato tutti i palestinesi ad osservare oggi una giornata di digiuno in solidarietà con i prigionieri.


Ha poi convocato una conferenza stampa dopo la riunione della leadership palestinese, cui hanno partecipato anche il Comitato Esecutivo dell'OLP, il Comitato Centrale di Fatah e di altre fazioni palestinesi.
Yasser Abd Rabbo, segretario generale dell'OLP, ha affermato che la leadership palestinese si aspetta che i palestinesi che vivono nei Territori Palestinesi e quelli della (cosiddetta, ndr) diaspora 
decidano di digiunare e di inviare
 di un messaggio ai prigionieri palestinesi per esprimere loro il pieno sostegno dei loro compatrioti.


"Chiediamo alle Nazioni Unite e le istituzioni dei diritti umani di agire immediatamente e senza tardare oltre, per affrontare il caso dei prigionieri palestinesi in digiuno", ha detto Rabbo."Il governo israeliano dovrebbe rispondere positivamente alle esigenze giuste dei prigionieri palestinesi. Noi riteniamo il governo israeliano pienamente responsabile per la vita e il destino dei prigionieri palestinesi in digiuno", ha sottolineato.
OstacoliL'OLP ritiene che la lettera del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non abbia fornito risposte chiare ai principali ostacoli che impediscono il riavvio del processo di pace nella regione."La lettera di Netanyahu ha risposto alle questioni fondamentali che stanno nel percorso del rilancio dei negoziati di pace"."La lettera non ha affrontato invece le attività coloniali israeliane nei territori palestinesi, soprattutto a Gerusalemme Est, né ha riconosciuto i confini del 1967 come base per il processo di pace", ha detto.L'OLP ha condannato Israele ultime decisioni coloniali con cui essi sequestrati terreni privati ​​e pubblici in Cisgiordania e Gerusalemme est occupata.

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Ecco l'ultima trovata dei rappresentati delle autorità palestinesi per far pressione su Israele in maniera immorale giocando impunemente con la vita dei palestinesi stessi. Ancora il solito doppio linguaggio: per le conferenze stampa dedicate agli occidentali parlano di "dramma nazionale", di "catastrofe", ma solo un paio di giorni fa esultavano fra di loro dicendo che lo sciopero avrà maggiore efficacia se qualche palestinese dovesse morire... insomma, se gli scioperanti muoiono sarà una vittoria o un dramma nazionale?

venerdì 25 maggio 2012

Ecco perché la soluzione a due stati “deve” fallire

Problemi identitari, status di rifugiati, lotta armata, disgregazione sociale e nazionalità strumentale alla distruzione di uno Stato nemico per definizione. Su basi instabili come queste si muove il futuro di quello che oggi tutti chiamiamo "popolo palestinese", spesso non conoscendone le origini. Sarebbe bene forse assumere il termine di PALESTINISMO: questo fenomeno sotto gli occhi di tutti spiega in effetti molte dinamiche storiche e attuali, altrimenti incomprensibili.

Il segreto di pulcinella


Ecco perché la soluzione a due stati “deve” fallire
17 maggio 2012
di Moshe Dann
(immagini e link esterni sono nostri)




La comunità internazionale non riesce a capire come mai non sortiscano risultati positivi tutte le sue pressioni per portare avanti un “processo di pace” che richiederebbe agli arabi palestinesi di rinunciare alla loro lotta contro lo stato ebraico. 
La risposta è che il conflitto non riguarda il territorio, bensì l’ideologia: cioè il PALESTINISMO, che sta alla base della guerra che da circa cento anni viene condotta contro il SIONISMO e lo stato di Israele in quanto storica patria nazionale del popolo ebraico (nel 1977 lo dichiara Zahir Muhsein:  Il popolo palestinese non esiste. La creazione di uno stato palestinese è solamente un mezzo per continuare la nostra lotta per l’unità araba contro lo Stato d’Israele." leggi qui). Per gli arabi, per i palestinesi e per gran parte dei musulmani ciò fa parte di una più vasta jihad, una sorta di lotta permanente contro l’infedele. […] Se non si coglie questo concetto, è impossibile capire il palestinismo, la sua missione storica e i suoi leader. 
È questo concetto che spiega non solo perché “il processo di pace” fallisce, ma anche perché “deve” fallire.


Questo è il logo ufficiale dell'OLP,
ci sono dubbi in merito ai loro scopi? 
Tutti gli sforzi per imporre uno stato palestinese (la soluzione “a due stati”) sono condannati a fallire per una semplice ragione: i palestinesi quello stato non lo vogliono. L’obiettivo primario del nazionalismo palestinese era ed è quello di cancellare lo stato d’Israele, di non permettere che esistaQualunque forma di indipendenza palestinese che accetti di convivere con una sovranità israeliana su quella che loro ritengono terra musulmana rubata dagli ebrei è, per definizione, un’eresia. 


 Mappa politica che cancella lo Stato d’Israele mostrata durante
un servizio televisivo dell’Autorità Nazionale Palestinese dedicato ad
un evento per la gioventù organizzato dal ministro all’educazione dell’ANP


È un concetto enunciato molto chiaramente sia nella Carta fondamentale dell’Olp che in quella di Hamas (Lo Statuto di Hamas richiede la distruzione dello Stato di Israele e la sua sostituzione con un Stato islamico palestinese, leggi qui)Il palestinismo non è un’identità nazionale, quanto piuttosto un costrutto politico sviluppato come parte di un aggressivo programma terroristico quando venne fondata l’Olp, nel 1964. 
Rappresentava un modo per distinguere fra arabi ed ebrei, e tra gli arabi che vivevano dentro Israele sin dal 1948 rispetto agli altri arabi. I termini “arabi palestinesi” o “arabi di Palestina” non sono invenzioni di colonialisti e stranieri: essi compaiono nei loro stessi documenti ufficiali. L’identità palestinese coincide con la lotta per “liberare la Palestina dai sionisti”, ed è diventata una causa internazionale che ha legato fra loro i musulmani nel quadro di una jihad con implicazioni molto più ampie: una sorta di rivoluzione islamica permanente.
Logo della cosiddetta Marcia verso Gerusalemme, del marzo 2012,
 quella che volevano spacciare per una marcia pacifista...


Il palestinismo ha funzionato come alibi e giustificazione di questa jihad. Ma storicamente gli arabi che vivevano in Palestina consideravano se stessi parte della “grande nazione araba”, come emerge anche dai documenti dell’Olp. 
Si raccolsero attorno al Mufti filo-nazista Haj Amin Hussein non per via di una loro identità nazionale, ma per odio verso gli ebrei. La loro lotta oggi non consiste nel conseguire l’indipendenza accanto a Israele, ma nel sostituire Israele con uno stato arabo musulmano. Pertanto le proposte su “due stati”, con l’indipendenza palestinese come obiettivo territoriale, di fatto contraddicono il palestinismo, dal momento che ciò significherebbe la fine della loro lotta per sradicare Israele (sul "doppio linguaggio" leggi qui). Il che spiega come mai nessun leader palestinese accetterà di arrendersi alle richieste occidentali e sioniste, e come mai accettare un compromesso è considerato un anatema. 


Il problema non è solo palestinese, qui il logo di una rete italiana di
associazioni filo-palestinesi... notate qualcosa di strano?
 

Indipendenza (accanto a Israele) significherebbe negare il carattere di “nakba” (catastrofe) della nascita d’Israele nel 1948 (sulla nakba e l'UNRWA leggi qui); significherebbe ammettere che tutto ciò per cui si è combattuto e tutti i sacrifici fatti sono stati vani. Significherebbe abbandonare (cioè, lasciare che si integrino altrove) cinque milioni di arabi che vivono in 58 “campi profughi” sponsorizzati dall’Unrwa in Giudea e Samaria (Cisgiordania), nella striscia di Gaza, in Libano, Siria e Giordania, e centinaia di migliaia di altri sparsi per il mondo: non sarebbero più considerati “profughi”, il che significherebbe la perdita di quel miliardo e passa di dollari che l’Unrwa riceve ogni anno (sull'UNRWA approfondisci qui)
Indipendenza significherebbe abbandonare la “lotta armata”, vera chiave di volta dell’identità palestinese; significherebbe svelare che il concetto di palestinismo creato dall’Olp e accettato dall’Onu, dai mass-media e anche da vari politici israeliani, è una falsa identità con un falso scopo. 
Significherebbe che tutte le sofferenze patite per cancellare Israele sono state inutili.
Questo è quello che viene insegnato ai bambini arabi nel mondo.
Quale futuro di pace è possibile su queste basi? Quali due stati?
L’indipendenza comporterebbe assumersi responsabilità e porre fine all’istigazione all’odio e alla violenza, fare i conti con fantasie come la “archeologia palestinese” o la “società e cultura palestinese”, richiederebbe di costruire un autentico nazionalismo, con istituzioni giuste e trasparentiSignificherebbe anche, naturalmente, porre fine al conflitto, porre fine al terrorismo e all’istigazione, porre fine alla guerra civile fra laici e islamisti, fra tribù e clan, porre fine alla corruzione, all’arbitrio, all’illegalità e dare vita a un governo autenticamente democratico. 
Accettare Israele significherebbe la fine della Rivoluzione Palestinese: un tradimento in termini nazionali e un’eresia in termini islamici. In questo contesto, per i palestinesi e per gran parte dei musulmani il “processo di pace” non è che una metafora della sconfitta.


(Da: YnetNews, 1.5.12)

giovedì 24 maggio 2012

Resistere al conformismo palestinofilo

maggio 24, 2012 
Pierre-André Taguieff
in “Outre-terre, Revue française de géopolitique”, 03/01/2003

(Pierre-André Taguieff (Parigi, 4 agosto 1946) è un sociologo, filosofo e storico delle idee francese, direttore di ricerca al Centro Nazionale francese per la Ricerca Scientifica e docente all’Istituto parigino di Studi Politici. Autore di numerosi saggi politici, di storia delle idee, sociologici e teoria della falsificabilità, i suoi studi hanno riguardato anche il razzismo, l’antisemitismo e l’analisi delle ideologie legate all’estrema destra; è noto anche per i suoi lavori pionieristici sul populismo, sulla cosiddetta “Nuova Destra” e sul Fronte Nazionale di Jean-Marie Le Pen).

Il conformismo palestinofilo  si è diffuso nelle società dell’Europa Occidentale, dove un fanatico “anti-sionismo” ha preso in ostaggio una gran parte dell’opinione pubblica. Sharon “l’assassino” Arafat “l’eroe” (o “martire”) o ancora, gli “assassini” israeliani,  i palestinesi “vittime”: le due immagini opposte riassumono il mito manicheo che struttura l’interpretazione dominante del conflitto israelo-palestinese dalla fine del ventesimo secolo. In particolare in Francia, dove le élite politiche, mediatiche e intellettuali, che siano golliste o marxiste, sono in gran parte schierate per la  “causa palestinese”, assistiamo a cio’ che può essere chiamato una crescente “arafatizzazione delle  menti “- anche se la burocrazia corrotta e la dittatura militar-poliziesca incarnata da Arafat sono state severamente criticate da molti leader e intellettuali palestinesi.



La “causa palestinese” idealizzata è diventata ormai “ideological chic” , lo snobismo culturale si è impadronito del  mondo dei media ed ha interiorizzato le evidenze di base, lo show- biz stesso si lascia andare spesso ad una palestinofilia e israelofobia radicale. L’accoppiamento del movimento  “anti-globalizzazione” alla “causa palestinese” è stato realizzato nella primavera del 2001, come mossa strategica basata sul fatto che detto movimento e detta causa condividono gli stessi nemici demonizzati (Stati Uniti e Israele) . Il conflitto israelo-palestinese, vissuto per diversi anni come una questione personale, da molti cittadini francesi, si è esteso in Francia per mezzo di una guerra politico-culturale che utilizza manifestazioni, proteste, petizioni e contro-petizioni e che ha fatto emergere una nuova scissione ideologicamente trasversale. L’israelofobia, ideologicamente normalizzata, è ormai presente in tutte le regioni del mondo. Fino a cadere nel grottesco, nel comico o nell’odioso. Lasciatemi fare un esempio particolarmente significativo, fornito da un intervento antisionisticamente  corretto della censura cinese a proposito di Albert Einstein, nel luglio 2002, episodio riportato nell’agosto 2002 da Libération:
“Una mostra organizzata dai servizi israeliani culturali e dedicata alla vita dello scienziato, doveva essere presentata in Cina, tra due settimane. Si tratta di documenti conservati presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, alla quale Einstein ha lasciato tutti i suoi beni, alla sua morte. Ma all’ultimo momento, il Ministero cinese della Cultura ha chiesto che fosse rimosso circa il 10% del testo che accompagnava la mostra: i passaggi che indicavano Einstein come ebreo, che aveva sostenuto la creazione dello Stato di Israele e al quale i leader dello Stato ebraico avevano perfino offerto di esserne il suo primo presidente, invito che Einstein  aveva declinato. Pechino vuole, a quanto pare, mostrare il suo zelo nel suo sostegno alla causa palestinese “.
Le implicazioni di questa serie di pregiudizi e di passioni ideologiche nel campo dell’ opinione politica non sono più trascurabili in Francia. Sinistra e destra, pro-Israele e pro-palestinesi si distinguono nettamente e si confrontano e competono in vari modi. Collegamenti inaspettati avvengono, al di là delle divisioni  destra / sinistra , o al di là della contrapposizione tra liberali e repubblicani. L’aggregazione dell’anti- americanismo e dell’ israelofobia produce effetti di ridefinizione e ridistribuzione delle posizioni. Per quanto riguarda gli estremi, sono scandalosamente palestinofili, gli archeo-trotzkisti e gli anti-globalizzazione  tipo Bové, ancora più della vecchia estrema destra, e questo mentre anche l’islamizzazione della causa palestinese si accentua,   trasformando sempre più una guerra di liberazione nazionale in una guerra santa per purificare la “terra palestinese”, supposta terra di Islam che comprende il territorio attuale di Israele, per ripulirla da tutti gli stranieri “infedeli” e soprattutto dagli ebrei.
Il comunista venezuelano nato Vladimir Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos, famoso terrorista che si è convertito all’Islam nel 1975, ammette, in un’intervista data il primo novembre 2001 (dal carcere de La Santé), alla rivista neo-fascista “Resistenza!”, il fatto e l’importanza strategica della confluenza o convergenza tra “estremisti” di destra e di sinistra, tra i quali alcuni ideologi, come il “rivoluzionario nazionalista” Christian Bouchet, mirano esplicitamente a creare “un fronte unito “per” combattere contro i nemici comuni: l’imperialismo yankee e il sionismo “
“Utilizzo spesso il termine convergenza, in merito agli attivisti di ideologie diverse con i quali ci troviamo d’accordo sull’essenziale. (…) Tutti coloro che combattono i nemici dell’umanità, cioè l’imperialismo degli Stati Uniti, il sionismo, i loro alleati e i loro agenti, sono i miei amici. (…) Mi sono convertito all’Islam nel mese di ottobre 1975, e continuo a essere comunista. Non c’è contraddizione tra l’obbedienza a Dio e la società ideale comunista. (…) Sono un Fedayin. La situazione in Palestina riflette quella del mondo arabo-musulmano: disastroso! Ma io vedo un futuro luminoso! I miei più cari auguri sono per la Liberazione della Palestina e tutti i paesi occupati dalle forze straniere. (…) L’islamismo radicale è colorato, eterogeneo e proteiforme. Esso contiene i migliori e i peggiori: i movimenti jihadisti fino al draconiano misogino e reazionario. (…) Dopo la disintegrazione del socialismo ateo, i jihadisti veri attaccano il mostro yankee per chiedere la liberazione dei tre luoghi sacri della Mecca, Medina e Gerusalemme. (…) Sono stato molto sollevato quando ho visto le operazioni eroiche di sacrificio l’ 11 SETTEMBRE 2001. Mi resi conto che il mio sacrificio a Khartoum non era stato vano. Sheikh Osama bin Laden è il modello dei mujahidin. Si tratta di un martire vivente, puro. “



Questa ondata di giudeofobia globale è teorizzata chiaramente, in alucni ambienti  islamisti, come una nuova guerra mondiale: “Questa guerra è tra noi e gli ebrei,” ripete Osama bin Laden in un video pubblicato il 19 Maggio 2002 in Gran Bretagna dall’agenzia islamica Ansaar news . In particolare, in una lettera diffusa alla fine del marzo 2002 e autenticata dalla firma del leader islamista, bin Laden, dopo aver ricordato l’assedio del campo di Jenin e il piano di pace saudita, ha lanciato un appello vero e proprio all’omicidio di massa
“Mi appello alla rivolta contro i sostenitori dell’eresia. Essi devono essere uccisi. Chiamo all’uccisione di tutti gli americani, di tutti gli ebrei, con coltelli, con proiettili o anche lanciando pietre contro di loro”.
La nuova giudeofobia, nella sua versione islamista jihadista, è esplicitamente genocida, definisce la sua lotta come un’impresa di eliminazione totale dei nemici assoluti, amalgamati nell’espressione ” giudeo-crociati “.  Si immagina come un modo per i “credenti”, di  raggiungere la salvezza, al di là del compimento del dovere. Il francese Zacarias Moussaoui, l’unico accusato in relazione con gli attentati dell’11 settembre 2001, ha detto esplicitamente,  in una delle sue deposizioni al giudice Leonie Brinkema:
“Brinkema, io sono musulmano, combattero’ e Allah mi darà la vittoria. (…) Attenzione, attenzione, o Giudei, l’esercito di Muhammad è tornato”.
Questa è letteralmente la reinvenzione della” battaglia finale “,  con la garanzia della vittoria finale.
L’appello all’assassinio sistematico degli ebrei e degli americani è parte di un mito di salvezza, nel quale é privilegiato l’assassinio rituale “purificatore”. Il tipo del”martire”-killer (diciamo, l’islamikaze) rappresenta l’ultima arma suprema di questi nuovi fanatici, votati ad  uccidere israeliani in quanto israeliani, e, di là di ogni eufemismo, ebrei in quanto ebrei. Eppure è evidente che questi assassini suicidi per fanatismo non potrebbero essere considerati “martiri” o  kamikaze in senso stretto (questi ultimi accettavano di morire per attaccare e distruggere obiettivi militari, non civili). La responsabilità dei musulmani investiti di autorità teologiche è, a questo punto, direttamente coinvolta: assegnare a degli assassini superstiziosi il titolo di  “martiri” è favorirne gli imitatori. (!) Le dichiarazioni dello Sheikh Ahmed Al Tayeb, considerato “liberale”, nominato Gran Muftì dal presidente Mubarak e cosi’ diventato il numero due dell’islam egiziano, su questo punto sono particolarmente irresponsabili:
“Queste operazioni [di attentatori suicidi palestinesi ] sono atti di auto-difesa e lotta contro l’occupazione. A nostro avviso, gli autori non si suicidano. Sono martiri. (…) I martiri sono l’unico metodo che resta ai palestinesi di difendersi. (…) Il popolo israeliano è un popolo aggressore e armato. In Israele, tutti possono essere arruolati nell’esercito. La resistenza palestinese attacca dunque dei civili che poterbbero essere soldati. Questo può essere difficile da capire per gli europei”.



L’errore è quello di rifiutare, nel solo caso della nazione israeliana, il principio stesso di una differenza tra l’esercito e la popolazione civile. Ne consegue che tutti gli israeliani possono e devono essere legittimamente considerati obiettivi militare: donne, bambini, neonati (potenziale militari!). La gravità di queste osservazioni, dove la malafede è combinata con l’odio, viene dall’essere pronunciate da una delle più alte autorità dell’Islam per conto dell’Università di Al Azhar (la Università teologica del Cairo), il ministro degli Affari religiosi e il Dar al Ifta (guidato dal Gran Mufti ), che sarebbero “di parere unanime” in merito. Queste parole assumono significato in una logica di guerra totale, e restituiscono una legittimazione totale teologica e religiosa ai massacri di civili, celebrati come “atti di resistenza”. Osama bin Laden ha soltanto tradotto in regole operative la visione manichea di una nuova guerra mondiale e inevitabile tra l’alleanza “giudaico-crociata”  e il “mondo musulmano”:
“Quello che è chiaro in questa campagna giudaico-cristiana contro il mondo musulmano, di una violenza mai vista prima, è che i musulmani devono riunire tutte le forze possibili per respingere il nemico: in campo militare, economico e in quello della predicazione “
presupponendo questa visione manichea di una guerra di “civiltà” ridotta a conflitto tra “l’Occidente” e il mondo islamico, ma insufflando una forte dose di ideologia vittimista e di risentimento, l’islamista Kamel Daoudi, nato in Algeria 3 agosto 1974 e naturalizzato francese il 14 giugno 2001, afferma in una “confessione” dagli accenti paranoici, rilasciata 9 settembre 2002:
“In quegli anni, dal 1991 al 1993, ci fu anche la guerra del Golfo e le sue tragiche conseguenze. L’Occidente ci odiava perché eravamo arabi ei musulmani. (…) L’Occidente è in guerra aperta contro di me, ho dovuto reagire. L’uccisione mirata [sic] di Kelkal Khaled fini’ per convincermi. (…) I media francesi hanno solo esasperato l’odio che rodeva il mio cuore e la mia mente, a forza di disinformazione, intossicazione, commenti cinici, con la soggettività evidente degli specialisti  della paccottiglia del Maghreb e del mondo arabo-musulmano. Per fortuna ho conosciuto Internet molto presto (1992), e ho avuto i miei propri canali di informazione… Dopo la mia formazione intellettuale, ora era necessaria una formazione religiosa e militare degna di questo nome. L’Afghanistan, paese certo mitizzato dai nostri, è stata la migliore destinazione possibile. (…) Tutta questa guerra unilaterale, condotta dall’auto proclamato Impero del mondo, la cui forza è americana e l’ideologia sionista e WASP, non ha trovato nessun resistente se non la legione [Al Qaeda] esiliata in quel paese desolato (…)”



Questo è ciò che abbiamo bisogno di capire e avere il coraggio di affrontare, in primo luogo attraverso l’intelligenza delle situazioni e i rapporti di forza. Siamo in guerra, la guerra è stata dichiarata. Una guerra non convenzionale, ma mondiale, guidata contro l’Occidente liberal-democratico dalle reti terroristiche -islamiche globalizzate. Una guerra totale, nella quale tutti i mezzi tecnologici disponibili sono ben lungi dall’essere stati utilizzati dai combattenti islamici. Il “mega-terrorismo” è domani. La Terza Guerra Mondiale è cominciata. Noi, gli intellettuali, siamo entrati in una guerra culturale e dei media, le cui implicazioni politiche sono di estrema importanza. In particolare dobbiamo smantellare gli argomenti sofistici che giustificano atti terroristici (sotto il pretesto della “sofferenza” o “disperazione” degli “oppressi”), confutare le proposte false o fuorvianti in merito alla “responsabilità” nel conflitto arabo-israeliano , mostrando in particolare come il rifiuto arabo, lungi dall’essere iniziato nel 1948, ha continuato a manifestarsi più o meno convulsamente dagli anni 1880-1900, contrastare il monopolio di “vittima” dei palestinesi (tema, quello del vittimismo, abilmente sfruttato dalla propaganda islamista), demistificare i cosiddetti “martiri” dell’Islam impazzito, ridotto ad un “ismo” che trasfigura macchine umane per uccidere. Questa guerra ha i suoi combattenti multi-dimensionali e i suoi profittatori, i suoi fanatici e opportunisti, i suoi attori socialmente visibili e i suoi agenti di influenza, ma anche, a destra e a sinistra, i suoi “collaboratori” , i suoi agenti, il suo assunto – questi pseudo-antirazzisti diventati giudeofobi professionisti,  questi intellettuali di origine ebraica passati surrettiziamente nel campo anti-ebraico, questi cristiani terzo-mondisti, soggetti a reminescenze anti giudaiche, questi rivoluzionari senza proletariato né rivoluzioni, che trovano nella “causa palestinese” (o, in Francia, in quella dei “sans papiers “) un oggetto sostitutivo della loro passione ideologica, questi anti-fascisti immaginari, mancanti di fascisti. Patetici ausiliari o collaboratori odiosi del “terzo totalitarismo”, compagni di viaggio ingenui del “fascismo verde” , l’islamismo conquistatore delle democrazie costituzionali e pluraliste. Penne ausiliaria del terrorismo islamo-palestinese . “Utili idioti” e “collaboratori” inutili la cui coscienza è immacolata , e il cui numero sta aumentando mentre, al tempo stesso, nell’ Europa occidentale e nel mondo, aumenta il terrorismo intellettuale palestinofilo Islamofilo . In Francia forse più che altrove, a nostra vergogna. E’ vero che non rischiano nulla , nemmeno in Israele, se non un maggiore comfort intellettuale e morale. Nel conformismo siamo rassicurati, e ci garantiamo una parvenza di virtù “cittadina”. Lo spirito di sottomissione alla visione dominante scaccia la libertà di spirito. Ma soprattutto, l’Islam radicale ha un fascino sull’ esaurito borghese Occidente, mentre mobilita coloro che non hanno nulla da perdere. Si reinventa l’utopia rivoluzionaria. Porterà al mito del terzo mondo. Nel ruolo del protagonista, il ribelle audace, bin Laden ha sostituito Guevara. Nel 1998, Carlos aveva svelato il segreto terrificante:
“L’islamismo rivoluzionario ha preso il posto del comunismo” fino a divenire “la spina dorsale dell’ anti-imperialismo globale “ .


L’islamo-palestinismo “rivoluzionario” è ora l’oppio degli intellettuali europei – per non parlare della moltitudine di semi-intellettuali che sono incrostati nei media. Parla con la retorica più virulenta della legittimità mediatica dell’anti-americanismo del risentimento che si è fatto vulgata. Anti-americanismo sempre in coppia con un anti-israelianismo demonizzazione, illustrato da questo estratto da un’intervista con il quotidiano di Ginevra Le Temps di Pascal Boniface geopolitico:
“- Alla fine di gennaio, George Bush ha proclamato “l’asse del male “(Iraq, Iran, Corea del Nord). Corrisponde secondo voi a una panoramica della minaccia reale?
- Questa è pura propaganda. Non che questi paesi siano senza colpa, ma perché la lista non è completa. Bush ha dimenticato di mettere un paese nella sua lista del Medio Oriente. Un paese dove l’esercito e i suoi generali sono di rilievo sulla scena politica da oltre mezzo secolo, un paese che sta sviluppando armi biologiche e chimiche, e che dispone di capacità nucleare. La – Siria? – No, Israele “
E ‘importante richiamare l’attenzione di tutti i cittadini di tutte le nazioni democratiche sui reali pericoli rappresentati dall’islamismo radicale, la nuova forma di totalitarismo che si annuncia dall’inizio del XXI secolo, i cui nemici sono la democrazia pluralistica (“la democrazia empia”) e il principio di laicità (un “veleno mortale” strumento di “complotto giudaico-massonico”, come specificano alcuni predicatori islamici).  Le periferie francesi non sono immuni, da venti anni, dai propagandisti della Jihad islamica, come dimostrato da numerose indagini che evidenziano alcune delle reti terroristiche – attivi o dormienti – che vi si trovano. Abbiamo particolarmente il diritto di preoccuparci della penetrazione islamista nelle scuole (università, scuole superiori), attraverso l’uso di “questione velo” o per sostenere la “causa palestinese”, che ancora mobilitano i giovani di “buoni sentimenti” ideologizzati, a scapito delle idee chiare . Tutto deve essere dato di principio ai musulmani repubblicani e nulla bisogna tollerare dagli islamisti, i nemici più o meno chiaramente espressi, del pluralismo religioso e del principio di laicità. Salman Rushdie,  preoccupato per l’avanzamento dell’occidentalofobia nell’opinione pubblica e di una giudeofobia islamista nell’opinione pubblica dei paesi musulmani, è stato essenziale in un’analisi pubblicata all’inizio di luglio 2002:
“Bisogna che i musulmani di tutto il mondo capiscano che il fanatismo è un flagello sproporzionato rispetto a quello che gli Stati Uniti incarna ai loro occhi. E che questo ideale da incubo del pianeta consegnato ai talebani ha prodotto un tributo terribile sul piano sociale, economico e politico. “
Abbiamo motivo di sperare che parte delle autorità spirituali dell’Islam, cosi’ come tra gli intellettuali musulmani, voci informate – come quelle in Francia di Soheib Bencheikh, Abdelwahab Meddeb, Leila Babes, di Rachid Kaci, Michael Fox o Malek Chebel – continuino a crescere sensibilmente e a far valere sia la natura intollerabile della violenza anti-ebraica, sia l’inganno rappresentato dall’islamismo, dalla strumentalizzazione politica dell’Islam e dal metodo di indottrinamento per creare fanatici. Uno dei più grandi leader spirituali dell’Islam, Ibn Arabi, aprendo la strada,   riconobbe a suo tempo:
“Solo santi amati nelle sinagoghe e nelle chiese! Solo nemici odiosi nei ranghi delle moschee! ”



E’ sia sbagliato che pericoloso pensare che l’Islam sia destinato ad andare alla deriva verso l’Islam radicale. Ma sta diventando sempre più urgente, in Francia, secolarizzare e repubblicanizzare Islam . Il che implica, da parte del governo, di non imporre i leader islamici (legati ai Fratelli Musulmani in Tabligh) come fossero rispettabili rappresentanti dell’Islam in Francia . I cosiddetti “islamisti moderati” cari al nuovo terzo-mondismo e agli angelisti di sinistra, sono i “moderati anti-semiti” o i “ragionevoli” di alcuni ideologi del 1930. L’estremismo radicale, criminale e settario, costituise la faccia nascosta di questa mitica “violenza moderata”. Il futuro probabile non è schematizzabile in questa mondializzazione dolce, felice e pacificatrice della quale i profeti celebrarono l’arrivo nel 1990, ma in una globalizzazione caotica, sotto il segno del polemos, aprente l’era della frammentazione conflittuale. La visione irenica della globalizzazione cosmopolita, ultimo rifugio dell’ utopia della pace perpetua, è ormai reliquia dell’ immaginazione politica della fine del ventesimo secolo. Riconoscere l’avvento dell’era della “politica del caos” implica una de-ideologizzazione degli approcci detti “geopolitici” (sempre dipendenti da “ismi” ereditati dal XIX secolo), e un supplemento di coraggio per designare, nonostante le illusioni gnostico -pacifiste costantemente ricorrenti, l’incertezza, la confusione, il nemico. Coloro che, cinici demagoghi, fanatici del terzo mondo o ingenui, legittimano le richieste della jihad contro l’Occidente e Israele, contro gli americani e gli ebrei, e trovano scuse al terrorismo ideologico, per conto di un “anti-imperialismo “di origine stalinista, sono complici dei nuovi barbari transnazionali. Devono essere trattati, intellettualmente e politicamente, in quanto tali.

Da  http://bugiedallegambelunghe.wordpress.com/2012/05/24/resistere-al-conformismo-palestinofilo/



C'è un punto su cui Golda Meir, Zahir Muhsein e Yasser Arafat sono d'accordo, quale?

"Il popolo palestinese non esiste". Questa realtà evidente a chiunque fino a 40 anni fa è diventata oggi una sorta di bestemmia, la prova provata del razzismo di chiunque osi ricordarlo. Quanti filo-palestinesi sono a conoscenza di queste verità storiche documentate?










Il popolo “palestinese” non esiste
Di Joseph Farrah
Posted: July 11, 2002
© 2002 WorldNetDaily.com


Un titolo provocatorio? E’ molto di più. E’ la verità.
La verità non cambia. La verità è la verità. Se una cosa era vera 50 anni fa, 40 anni fa, 30 anni fa, è ancora vera oggi. E la verità è che solo 30 anni fa, non c’era molta confusione riguardo alla questione palestinese.

Forse vi ricorderete che l’ex Primo Ministro israeliano GOLDA MEIR FECE LA CORAGGIOSA DICHIARAZIONE POLITICA: “NON ESISTE UN POPOLO PALESTINESE”.

Questa affermazione da allora è stata fonte di scherno e derisione da parte dei propagandisti arabi. Amano parlare del “razzismo” di Golda Meir. Amano insinuare che si trattasse di negazionismo storico. Amano dire che la sua affermazione è palesemente falsa, una deliberata menzogna, un inganno strategico.

Ciò di cui non amano parlare, invece, sono LE DICHIARAZIONI MOLTO SIMILI FATTE DA YASSER ARAFAT e dal suo ristretto cerchio di dirigenza politica anni dopo che Golda Meir aveva detto la verità – che non esiste una distinta identità culturale o nazionale palestinese.

Così, nonostante il fatto che sia comunemente accettato che esista un popolo palestinese, voglio riportare queste dichiarazioni scomode fatte da Arafat e dai suoi sostenitori quando ancora non si preoccupavano molto delle pubbliche relazioni.




Il 31 marzo 1977, il giornale olandese Trouw pubblicò un’intervista con un membro del comitato direttivo dell’OLP, Zahir Muhsein. Ecco le sue dichiarazioni: 
“IL POPOLO PALESTINESE NON ESISTE. La creazione di uno Stato Palestinese è solo un mezzo per continuare la nostra lotta contro lo Stato d’Israele per “l’unità araba”. In realtà non c’è differenza fra giordani, palestinesi, siriani e libanesi. SOLO PER RAGIONI POLITICHE E STRATEGICHE OGGI PARLIAMO DELL’ESISTENZA DI UN POPOLO PALESTINESE, visto che gli interessi arabi richiedono che venga creato un distinto “popolo palestinese” che si opponga al sionismo. Per motivi strategici, la Giordania, che è uno Stato sovrano con confini definiti, non può avanzare pretese su Haifa e Jaffa mentre, come palestinese, posso indubbiamente rivendicare Haifa, Jaffa, Beer- Sheva e Gerusalemme. Comunque, appena riconquisteremo tutta la Palestina, non aspetteremo neppure un minuto ad unire Palestina e Giordania”.
Piuttosto esplicito, vero? E’ perfino più chiaro della dichiarazione di Golda Meir. Conferma quello che ho scritto nel titolo. E non si tratta di una dichiarazione unica nel suo genere. 
Arafat stesso fece una dichiarazione di questo tipo, decisa ed inequivocabile, nel 1993. 
Questo dimostra che, alla fine, LA QUESTIONE DELLO STATO PALESTINESE E’ UN SOTTERFUGIO IDEATO PER ARRIVARE ALL’OBIETTIVO DI DISTRUGGERE ISRAELE.


In effetti, lo stesso giorno in cui Arafat firmò la “Declaration of Principles” nel giardino della Casa Bianca nel 1993, spiegò la sua azione alla TV giordana. Ecco cosa disse: 
“Visto che non possiamo sconfiggere Israele con la guerra, dobbiamo farlo in diverse tappe. Prenderemo tutti i territori della Palestina che riusciremo a prendere, vi stabiliremo la sovranità, e li useremo come punto di partenza per prendere di più. Quando verrà il tempo, potremo unirci alle altre nazioni arabe per l’attacco finale contro Israele”.
Non importa quante persone siano convinte che il desiderio di fondare uno Stato Palestinese sia sincero e che sia la soluzione per portare la pace in Medio Oriente, queste persone vengono prese in giro.

L’ho detto prima e lo ripeterò ancora, nella storia del mondo, LA PALESTINA NON E’ MAI ESISTITA COME NAZIONE. La regione conosciuta come Palestina è stata governata prima dagli antichi romani, poi dai musulmani e dai crociati cristiani, poi dall’impero ottomano e, per poco tempo, dagli inglesi dopo la prima guerra mondiale. Gli inglesi acconsentirono a restituire almeno una parte della terra agli ebrei, visto che era la terra dei loro padri. Non è mai stata governata dagli arabi come una nazione a se stante.

Perché adesso è diventata una priorità cruciale?
La risposta sta NELLA MASSICCIA CAMPAGNA DI DISINFORMAZIONE E NELLO SPIETATO TERRORISMO DEGLI ULTIMI 40 ANNI.


Golda Meir aveva ragione. La sua dichiarazione viene avvalorata dalla verità della storia e dalle esplicite, ma poco conosciute, dichiarazioni di Arafat e dei suoi seguaci.
Israele e l’occidente non devono arrendersi al terrorismo concedendo agli assassini quello che vogliono – il trionfo nelle pubbliche relazioni e una vittoria strategica. 

Non è troppo tardi per dire no al terrorismo. NON E’ TROPPO TARDI PER DIRE NO AD UN ALTRO STATO ARABO TERRORISTA. NON E’ TROPPO TARDI PER DIRE LA VERITA’ RIGUARDO ALLA PALESTINA.


______________
Joseph Farah è un arabo-americano di religione cristiano-evangelica. Dirige il quotidiano online WorldNetDaily, una delle voci più ascoltate della cultura conservatrice americana.

Traduzione dall’inglese a cura del
Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana

mercoledì 23 maggio 2012

Le vittime? Sono sempre palestinesi!

Un fake datato ottobre 2000, per riscontrare come nei media internazionali molto poco sia cambiato nei metodi della disinformazione su Israele a mezzo stampa. A 12 anni di distanza ci accorgiamo che le strategie sono le stesse, anche se la mole dei fake continua ad essere prodotta in maniera inarrestabile, mentre le smentite non hanno mai sufficiente visibilità...




L'immagine di Tuvia Grossman riportata con
la falsa didascalia dal New York Times
L’8 Ottobre del 2000, nel periodo del Capodanno ebraico, Tuvia Grossman, uno studente ebreo americano, prese un taxi con due suoi amici a Gerusalemme. Il guidatore decise di prendere una scorciatoia attraverso il quartiere arabo di Wadi Al-Joz e improvvisamente vennero aggrediti da un gruppo di 40 arabi che ruppero i vetri del taxi e trascinarono fuori Grossman. Lo picchiarono ripetutamente, lo presero a calci, lo pugnalarono ad una gamba e infierirono sulla sua testa con delle pietre.



Un fotografo scattò una foto di Grossman, grondante di sangue, accanto a un poliziotto israeliano intervenuto in loro soccorso, evidentemente alterato a causa della scena che si presento’ ai suoi occhi. L’Associated Press, l’agenzia per la quale il fotografo lavorava, pubblico’ la foto con la didascalia “Un poliziotto israeliano e un palestinese sul Monte del Tempio”
Questa foto e la descrizione falsa della storia che l’immagine voleva narrare, fu utilizzata dai giornali di tutto il mondo per rappresentare Israele come l’aggressore ed i palestinesi come vittime. Molte testate internazionali la pubblicarono, fra queste il Wall Street Journal e il New Jork Times.
Questo è un classico caso di “mancanza di volontà dei media di presentare la vulnerabilità della parte israeliana e la brutalità dei palestinesi”. L’Associated Press semplicemente dichiaro’ di aver creduto che la vittima fosse un arabo. E i giornali di tutto il mondo, dopo aver volenterosamente fatto circolare la notizia falsa, concessero uno spazio molto limitato alla smentita per riparare al danno causato. 
Questa è la lettera che il padre di Tuvia scrisse all’editor del N.Y. Times:
“Per quanto riguarda la foto a pagina A5 (30 settembre) del soldato israeliano e del palestinese sul Monte del Tempio – vi informo che il palestinese è in realtà mio figlio, Tuvia Grossman, uno studente ebreo di Chicago. Lui, e due suoi amici, sono stati tirati fuori dal loro taxi a Gerusalemme, da una folla di arabi palestinesi e sono stati seriamente picchiati e feriti.
Quella foto non può essere stata scattata sul Monte del Tempio perché non ci sono stazioni di servizio  e certamente nessuna con la scritta in ebraico, come quella che si vede chiaramente dietro il soldato israeliano che cercava di proteggere mio figlio dalla folla.”
Aaron Grossman, M.D

Lettera di Howard Gissinger all’editor del  New York Times:
“Caro direttore,Anche il solito parziale e sbilanciato NY Times nei suoi reporting dal Medio Oriente ha toccato un nuovo minimo. Finché il Times cercherà di trasmettere la convinzione che i palestinesi sono tutti degli agnelli innocenti, tormentati da un oppressore aggressivo, non potrà nemmeno concepire che ci possano essere feriti NON palestinesi. Questo caso mi riguarda personalmente. Nel Times di sabato, alla pagina  A6 , l’immagine del “palestinese ferito” è, infatti, quella di mio nipote, Tuvia Grossman, uno studente ebreo AMERICANO, in Israele. La sua unica colpa? Essere  ebreo. Non si trovava su un “fuoco incrociato” , ma è stato semplicemente l’obiettivo di “agnelli” palestinesi che hanno lapidato sua vettura, lo hanno trascinato fuori dal veicolo, gli hanno schiacciato la testa con pietre e lo hanno colpito a una gamba. Il soldato israeliano, il quale ovviamente avete voluto rappresentare come carnefice del povero palestinese ferito, è stato invece quello che ha  salvato la vita di mio nipote. Un’occhiata anche veloce allo sfondo dell’immagine può dire a chiunque che non si tratta del Monte del Tempio . Credo che una ritrattazione, in una posizione di rilievo sul vostro giornale, sia necessaria, unita alle scuse ai genitori.Howard Gissinger
Tuvia Grossman in un'altra fotografia.

Onu o negoziati: che ne pensa il palestinese medio?

Quando sentiamo urlare slogan contro Israele e innalzare striscioni che portano le scritte Free Palestine, siamo sicuri che questi attivisti abbiano veramente a cuore solo il benessere dei Palestinesi? Se è così, come mai non ascoltano cosa realmente vuole la maggioranza dei Palestinesi?
Qui riportiamo due sondaggi che hanno dato risultati destabilizzanti: la maggioranza dei Palestinesi vuole convivere pacificamente con Israele, vuole tornare a negoziare la pace con i suoi vicini e una buona fetta dei Palestinesi di Gerusalemme Est, messi di fronte all'ipotesi dei due Stati, sceglie liberamente Israele... allora, li vogliamo ascoltare o è più semplice singhiozzare "Stay human" e "Free Palestine" di fronte all'ultimo video dell'ultimo attivista dell'ISM da Gaza?

8 settembre 2011

“Qual è la vostra opinione, l'opzione migliore per l'avvenire della Palestina? Il riconoscimento in sede Onu, senza conclusione degli accordi di pace con Israele, o ritornare al tavolo dei negoziati, con gli israeliani, allo scopo di ottenere una pace stabile e ricorrere in seguito all'Onu? - Sondaggio di opinione pubblica palestinese, pubblicato il 6 settembre 2011.

Il 35% ha detto «Andiamo all'Onu », mentre il 59% ha detto «ritornare al tavolo dei negoziati con gli israeliani».

Per sostenere la proclamazione della risoluzione Onu che riconosca lo Stato Palestinese, il 26% dei palestinesi ritiene utile  «una grande manifestazione pacifica in prossimità delle barriere stradali, come protesta contro l'esercito israeliano e i coloni » ; solo il 15% è favorevole a  «compiere azioni violente contro l'esercito israeliano e i coloni», ma la maggioranza, ossia il 53% si dice speranzosa di « tornare a negoziati pacifici con il governo israeliano».

( Fonte: Daily Alert d’après Nabil Kukali – Palestinian Center for Public
Opinion)


RIASSUNTO DELL'INCHIESTA SUGLI ARABI DI GERUSALEMME EST :

Secondo le precedenti inchieste,condotte dai migliori standards internazionali, gli arabi di Geruslamme Est in larga maggioranza preferirebbero diventare cittadini israeliani piuttosto che cittadini di un nuovo stato palestinese. In oltre, il 40% si dichiara (da possibilista a sicuro) pronto ad accettare di traslocare in Israele, piuttosto che vivere sotto legislazione palestinese.
Il 44% dei palestinesi di Gerusalemme Est si dice molto, o comunque in parte, soddisfatto del proprio livello di vita. E' una percentuale molto elevata se raffrontata ad altre popolazioni del mondo arabo. Solo il 30% circa si dichiara vicino ai movimenti Fatah o Hamas o al movimento islamico arabo-israeliano. La politica non appare la loro preoccupazione maggiore.

(I dettagli dell'inchiesta qui: David Pollock – CAPE  )
http://ambisrael.fr/onu-ou-negociations-pense-la-rue-palestinienne/

A Tel Aviv gli ultimi bundisti, ottantenni irriducibili fra yiddish e internazionalismo

Nel famoso Stato dell'apartheid, lo stato razzista e fascista per eccellenza, pare ci sia posto per tutti, ma proprio per tutti. Non solo gli arabi anti-israeliani in Parlamento, i Neturei Karta filo-palestinesi coi soldi americani, ma anche i bundisti anti-israeliani a Tel Aviv! Anche loro sono parte integrante della storia dell'ebraismo, tassello insopprimibile della realtà caleidoscopica di questo Paese che si configura come un incredibile e irriducibile "concentrato di umanità"...
Yitzhak Luden
TEL AVIV - Il 'Bund', movimento operaio  che nel secolo scorso elettrizzava le masse ebraiche in Russia e Polonia e che per decenni fu uno dei pilastri dell' internazionalismo proletario in Europa, e' ancora attivo (all' insaputa di quasi tutti gli israeliani) in un 'covo' di Tel Aviv. A rompere il silenzio su questi incalliti professionisti della lotta sociale (alcune decine di ottantenni che frequentano un circolo dove ci si esprime solo in 'yiddish', l'idioma degli ebrei dell'Europa centro-orientale) e' stato di recente, con un film su di loro, il giovane documentarista Eran Torbiner.
Una manifestazione del Bund nel 1917
Da oltre mezzo secolo in Israele, lo scrittore Yitzhak Luden - 88 anni portati con piglio battagliero, indomito senso dell'umorismo e lucidita' - ne incarna oggi la leadership. Spiega d'essere rimasto un convinto fautore del bundismo - ideologia socialista rivoluzionaria che mosse i primi passi alla fine dell'Ottocento, entrando rapidamente in conflitto tanto con i bolscevichi (per la sua impronta umanitaria) quanto con i fratelli separati sionisti (per il rifiuto del culto nazionale della terra d'Israele) - poiche', fatti alla mano, lo Stato israeliano ''non ha rappresentato una soluzione della questione ebraica''. Non solo non ha sconfitto l'antisemitismo, ma per certi versi - accusa - ha contribuito a rinfocolare sentimenti d'ostilita' che mettono a repentaglio gli ebrei della Diaspora. Luden riceve l'ANSA nel suo appartamentino di periferia.

Trovarlo non e' difficile: e' una traversa di Rehov ha-Maavak, ossia Via della Lotta. Nato in una Varsavia dove il Bund garantiva alle masse ebraiche (allora un terzo della popolazione cittadina) istruzione, cultura e assistenza sindacale, Luden avrebbe visto il suo mondo crollare con l'invasione tedesca. Il movimento fu infatti stritolato dallo sterminio nazista. Piu' tardi, ai superstiti, sarebbe toccata anche la persecuzione degli stalinisti: ''Per loro eravamo fumo negli occhi, eretici da sradicare, un po' come i trotzkisti'', ricorda lo scampato. Rimasto solo al mondo dopo la II guerra mondiale, egli sarebbe approdato a Tel Aviv con poche altre centinaia di Bundisti. Tutti si sentivano in transito: speravano testardamente che dalle ceneri del conflitto e dell'Olocausto sarebbe potuta risorgere presto una nuova Polonia dove riprendere la lotta sociale. Ma il sedimentarsi d'un regime comunista totalitario (e di nuove forme d'antisemitismo) li indussero a restare infine in Israele, malgrado il credo irriducibilmente avverso al Sionismo. C'era d'altronde un'altra battaglia da combattere: quella per la lingua yiddish, osteggiata dai laburisti di David Ben Gurion perche' vista come espressione della ''odiata Diaspora''.

Gli scrittori yiddish di Tel Aviv si sentirono costretti in un ghetto virtuale. Ma era gente di acciaio. Malgrado le difficolta', militanti come J. Artusky e Ben-Zion Zalevic avrebbero tenacemente pubblicato un giornale nella lingua degli ebrei della Mitteleuropa: i lettori erano pochi, ma con le idee chiare, ispirate a istanze radicali sul fronte sociale e a un pacifismo senza compromessi su quello della politica regionale. ''Da sempre il Bund e' stato per una soluzione equa della questione palestinese: due Stati sovrani, in buon vicinato'', rivendica Luden.

Egli stesso ha prodotto migliaia di articoli, in parte raccolti ora in due ponderosi volumi in yiddish: e dunque incomprensibili all'israeliano della strada. Questa settimana, nel suo ultimo editoriale (riservato forse a una platea di 800 persone), Luden strapazza da par suo il premier destrorso Benyamin Netanyahu per la ''retorica bellicista, che - denuncia - rischia di scatenare un conflitto con l'Iran''. Viene allora da chiedergli cosa ne pensi - lui, sopravvissuto della Shoah e custode della memoria di una famiglia di vittime e di un mondo di ombre - dell'accostamento azzardato di recente da Netanyahu fra gli ebrei massacrati ad Auschwitz e i rischi che incombono su Israele da parte di Teheran? ''Por-no-gra-fia politica'', sillaba a scatto, fremente d'indignazione, l'ultimo Bundista di Tel Aviv.