sabato 14 aprile 2012
Sono ebreo!
Emanuel Baroz
Come ogni anno in questo triste anniversario riproponiamo la storia di Daniel Pearl, il giornalista statunitense rapito e poi barbaramente ucciso mediante decapitazione (avete letto bene….) da parte di terroristi islamici che ripresero anche la scena con una telecamera ed inviarono poi il macabro video (che vi risparmiamo) alle autorità pakistane. Ricordiamo le ultime parole che questo povero ragazzo fu costretto a dire prima di essere ucciso: “
sono ebreo, mio padre è ebreo, mia madre è ebrea”. Il suo ricordo sia in benedizione.
New York – Un video raccapricciante finito ieri nelle mani della polizia pakistana, e poi dell’ Fbi, mostra il corpo sudicio di sangue e senza vita di un giornalista americano: Daniel Pearl. L’ inviato del Wall Street Journal è stato assassinato dalla banda di integralisti musulmani che lo aveva rapito a Karachi il 23 gennaio. E’ l’ ultimo caduto, dopo Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli e migliaia di altri ufficiali e sottoufficiali del giornalismo mondiale, nella guerra infinita per una informazione onesta, difficile, scomoda.
Trentotto anni, laurea a Stanford, una brillante carriera, moglie francese e bimbo in arrivo, Pearl era da un anno corrispondente del Journal da Bombay. I suoi amici ci raccontano di una personalità «magnetica», capace di afferrare l’ attenzione di tutti gli interlocutori. A gennaio si precipitò in Pakistan per una pista che confidava ai colleghi «avrebbe fatto capire molte cose». Si trattava dei collegamenti tra Richard Reid e Osama Bin Laden, tra il “bombarolo della scarpa” che a dicembre tentò di far esplodere l’ aereo Parigi-Miami e il leader indiscusso (e invisibile) di Al Qaeda.
Ma “Danny” così lo chiamavano gli amici non ha avuto fortuna. Intercettato dalla banda di Ahmed Omar Saeed Sheikh, giovanissimo leader integralista con passaporto britannico, fu rapito il 23 gennaio a Karachi mentre sperava, uscendo da un ristorante, di intervistare lo sceicco Galiani, uno dei leader dell’ integralismo pachistano. Pochi giorni dopo lo fotografarono con una pistola puntata alla tempia e consegnarono l’ immagine alla Storia via email.
Lo umiliarono. Lo ferirono. Lo fecero passare (senza ragione) come agente della Cia e poi del Mossad. Come riscatto pretesero dagli Stati Uniti la liberazione dei detenuti pachistani nelle gabbie di Guantanamo, la base americana nella costa meridionale dell’ isola di Cuba. Una condizione, questa, che nessun presidente americano avrebbe mai accettato. Tanto meno George W. Bush. In compenso la Casa Bianca chiese al generale-dittatore-presidente del Pakistan, Pervez Musharraf, di fare tutto il possibile per salvarlo. Di qui l’ arresto dello sceicco Galiani, subito rimesso in libertà perché non c’ era alcuna prova contro di lui; poi l’ arresto dello stesso Omar.
«Pearl è vivo», assicurò Omar.Gli permisero di mandare un messaggio in codice ai suoi complici: «Per favore disse con la posta elettronica mandate il paziente dal dottore». La risposta (laconica ed elettronica): «Il paziente è morto». La conferma: il video rossosangue nelle mani dell’ Fbi. Poi l’ annuncio del dipartimento di stato alle dieci e mezza di ieri sera: «L’ assassinio di Daniel Pearl è un oltraggio alla convivenza pacifica. Assieme al Pakistan, faremo di tutto per individuare punire i colpevoli». Marianne, lei, ha deciso di non parlare: «Non concederò interviste», ha fatto dire la moglie di Pearl da un amico di famiglia. Il quale ha letto di fronte ai microfoni delle televisioni californiane il comunicato. «Siamo tristi, le paure più gravi sono diventate realtà: pensavamo che nessuno avrebbe torto un capello a una anima così dolce. L’ assassinio di Danny va al di là di ogni atto razionale. Per noi era un figlio, un fratello, uno zio, un marito e il padre di un bambino che non potrà mai incontrarlo». «Era anche un musicista continua il comunicato della famiglia era uno scrittore, un cantastorie, un architetto di ponti interculturali. Era pieno di sole, di verità, di spirito umoristico, di senso dell’ amicizia. Ci sentiamo vicini agli amici che lo hanno conosciuto e a una umanità che dovrà vivere d’ ora in poi senza di lui».
Assunto nel 1990, Pearl aveva lavorato per il Journal da Atlanta, Washington, Londra e Parigi, dove scriveva sul Medio Oriente e dove aveva conosciuto Marianne, una ragazza serena, dai capelli ricci, con cui condivideva gli sconforti professionali e le speranze esistenziali. Insieme si erano trasferiti a Bombay alla fine del 2000. A dispetto della pancia, cresciuta nonostante il sequestro, lei ha fatto di tutto per convincere i rapitori: «Non dovete fargli del male, non vi serve a niente», ripeteva la moglie nelle interviste televisive. «Danny vi serve più vivo che morto», diceva negli appelli.
Ma gli sforzi di Marianne sono stati vani. Dopo quasi un mese di speranze e delusioni, di sforzi e sogni, di fotografie ottimiste e di messaggi ufficiali (compreso quello del presidente pachistano Musharraf: «E’ vivo»), quello di Daniel Pearl è l’ ultimo oltraggio, l’ ultimo insulto al giornalismo internazionale. Suo figlio, ha detto ieri George W. Bush, conoscerà il padre solo per interposta persona.
http://www.focusonisrael.org/2010/02/22/daniel-pearl-terrorismo-islamico-antisemitismo/
Dichiarazioni di Churchill agli Arabi di Palestina
da: Oriente Moderno,
Anno I, Nr. 1,
15 giugno 1921, p. 30-31
Dichiarazioni di Churchill agli Arabi di Palestina. - Il ministro Churchill ha tenuto il seguente discorso alla Delegazione araba palestinese: «Venuto al Cairo per studiare la questione della Mesopotamia, sono stato invitato in Palestina da Sir H. Samuel: egli è il rappresentante responsabile della Corona, io non lo sostituisco. Dietro sua richiesta ho accettato questo colloquio, che non ha nulla di ufficiale, e parlerò chiaramente per evitare malintesi. Ritengo che le vostre richieste siano in parte settarie e inopportune. Io non posso e non desidero annullare la dichiarazione Balfour e sospendere l’immigrazione (1). Il Governo inglese, per mezzo di Balfour, si è impegnato a favorire la sede nazionale: ciò implica l’immigrazione ed ha ottenuto l’approvazione delle potenze alleate e vincitrici. L’impegno preso quando le sorti della guerra erano incerte, deve considerarsi confermato dalla vittoria, ed io son certo che la Lega delle Nazioni accetterà tale punto di vista. È del resto giusto che gli Ebrei dispersi possano riunirsi in una sede nazionale in Palestina, alla quale sono legati da 3000 anni. Ciò sarà, secondo noi , un bene per il mondo, per l’impero britannico, ed anche per gli Arabi palestinesi, che lungi dal soffrirne, ne benefìcieranno.
«Richiamo la vostra attenzione alla seconda parte della dichiarazione che insiste sulla santità dei vostri diritti civili e religiosi, e deploro che non ne riconosciate il valore.
«Se le promesse fatte agli Ebrei sono valide, altrettanto valgono quelle fatte a voi: noi le manterremo fedelmente ambedue. Il Governo britannico ha diritto alla propria opinione: la nostra è una posizione di fiducia, ma la conquista ne fa uno stato di diritto. Voi parlate come se foste stati voi a rovesciare i Turchi, ma non è così: molte vite inglesi sono state sacrificate per la Palestina. Notate le parole della Dichiarazione Balfour: “una sede nazionale” e non “la sede nazionale". Sede nazionale non significa un Governo ebraico che domini gli Arabi. L’Inghilterra è il massimo stato musulmano del mondo, è ben disposta verso gli Arabi e ne apprezza l’amicizia. Io ho constatato qui che i funzionari non fanno differenze fra Ebrei ed Arabi. Noi diamo tale importanza all’imparzialità, che abbiamo indotto S. M. a nominare Alto Commissario Sir H. Samuel, esperto uomo di governo, capace di governare con equità, e che non può venir attaccato dagli Ebrei quando decide contro di loro. Voi non dovete aver timori per l’avvenire: l’Inghilterra ha promesso di dare al movimento sionista un’occasione di farsi valere, ma esso riuscirà soltanto secondo i propri meriti.
«Noi non possiamo tollerare che una parte della popolazione venga espropriata dall'altra. La sede nazionale ebraica può attuarsi soltanto se gli Ebrei si apriranno una via, passo per passo, con i propri meriti, contribuendo ad aumentare la prosperità dell’intero paese e della sua popolazione. Osservate i grandi progressi che si sono avuti nelle località colonizzate dagli Ebrei. Che queste colonie siano state finanziate dall’estero deve piuttosto indurvi alla tolleranza verso il sionismo. Voi dite di rimpiangere l’amministrazione turca, ma ne presentate un’immagine falsa: i Turchi trascuravano e opprimevano la Palestina, che è capace di sostenere una popolazione maggiore dell’attuale. E se amavate tanto i Turchi, perché vi siete ribellati contro di loro?
«All’affermazione cbe il sionismo vi porterà maggiore prosperità voi direte: Dobbiamo dunque vendere il nostro paese? No, l’immigrazione ebraica è soltanto possibile in quanto si esplica legittimamente. I Sionisti hanno un compito difficile e voi dovete aiutarli. L’attuale forma di governo durerà per molti anni; gradatamente svilupperemo istituzioni rappresentative che portino alla piena autonomia, ma i figli dei nostri figli non la vedranno ancora».
Il discorso termina con un’esortazione all’accordo e alla collaborazione. (Palestine, 9-1-1921) .
http://politica-internazionale.blogspot.com/2010/06/la-questione-sionista-ed-il-vicino.html#dieci
La Delegazione Palestinese e la propaganda
da: Oriente Moderno,
Anno I, Nr. 5,
15 ottobre 1921, p. 290
La Delegazione Palestinese e la propaganda. - Dopo aver lodato l’attività della Delegazione Palestinese a Londra, e il consenso che vi trova negli ambienti politici, il Karmel rileva che essa, più che una missione ufficiale politica, è una missione di propaganda.
La Palestina non può appoggiare la propria Delegazione come l’Irlanda sostiene de Valera, l’India la Delegazione pro Califfato, e l’Egitto Zaghlul, perché il suo popolo è debole per numero e importanza politica. La Francia e l’Inghilterra seguono verso il mondo arabo una politica di smembramento; non solo la Palestina è stata divisa dalla Siria, ma le hanno tolto la Transgiordania, per rendere più difficili i rapporti con il Higiaz e la Mesopotamia; alla Siria viene applicato il decentramento; altre misure simili si prevedono in Mesopotamia.
Contro questi sistemi si può reagire con la propaganda, illuminando l’opinione pubblica inglese sui disastrosi effetti della politica sionista per il suo buon nome in Oriente. Non che i colloqui della Delegazione col Papa e coll’arcivescovo di Canterbury non abbiano dato buoni risultati, ma oggi è necessario battere una via diversa; pubblicare articoli nella stampa inglese, tener conferenze, far parlare predicatori nelle chiese, ricorrere a mezzi pratici moderni per diffondere nel pubblico britannico la conoscenza del punto di vista palestinese. Se i membri della Delegazione non sono in grado di prendere personalmente contatto con l’opinione pubblica, si rivolgano a scrittori ed oratori inglesi intenditori di questioni orientali, come affiderebbero la difesa dei loro privati interessi ad abili avvocati. Quanti agl’indigeni della Palestina, combattano la politica di smembramento con un’attiva propaganda, estesa a tutto il mondo arabo, in modo che la questione palestinese non sia considerata da sola, ma venga a collegarsi ai problemi generali dei paesi arabi. (al-Karmel, 10-9-1921). - V. d. B.
http://politica-internazionale.blogspot.com/2010/06/la-questione-sionista-ed-il-vicino.html#trentacinque
Le bugie Al Dura
Mercoledì scorso la Corte suprema francese ha accolto il ricorso del Dr. David Yehuda, in merito alle cartelle cliniche del padre di Muhammad al-Durrah. Jamal al-Durrah cito' in giudizio il medico dopo che aveva dichiarato, in un'intervista in Francia, di aver personalmente curato l'uomo per le ferite del passato e che le sue cicatrici non erano prodotte da armi da fuoco israeliane. Al-Durrah menti' affermando che suo figlio Mohamed, di dodici anni, fu ucciso tra le sue braccia dai soldati israeliani.
Il Dr. David ha dichiarato a Arutz Sheva News, in un'intervista esclusiva, che la sentenza della Corte è la prova che la famiglia al-Durrah "ha mentito nel tentativo di screditare lo Stato di Israele".
(Al link l'intervista in ebraico)
http://www.israelnationalnews.com/News/Flash.aspx/232227#.TzvnoRnTbYh
Tunisia: un predicatore egiziano scatena un'ondata di sdegno in Tunisia
Mercoledi' 15 e giovedi' 16 febbraio, a Tunisi, sono state sporte due denunce contro un predicatore radicale egiziano, Wadji Ghonim, la cui visita ha creato il caos. « Ha inneggiato a una Tunisia islamica, giustificato le violenze contro le donne, vantato in gran pompa la jihad e parlato come se fossimo in guerra! », s’indigna l’avvocato Bochra Belhadj Hmida, che ha presentato la prima denuncia, riferendo davanti il tribunale di prima istanza di Tunisi, insieme ad otto associazioni, tra le quali l'Associazione tunisina delle donne democratiche.
60 anni, Wadji Ghonim non è uno sconosciuto. Noto per la sua posizione in favore dell'escissione delle donne - che non ha osato sostenere pubblicamente in Tunisia - questo ex militare egiziano, autore di diatribe radicali, è vicino ad Hamas. Figura dal 2009 nella lista del ministero degli interni britannico che raccoglie le persone alle quali l'ingresso è vietato per "apologia della violenza terrorista".
Invitato da quattro associazioni islamiste, delle quali tre nate dopo la caduta di Zine El-Abidine Ben Ali, Wadji Ghonim ha tenuto molte conferenze nelle moschee, soprattutto a Sousse e Mahdia, al nord est del paese, cosa, secondo Belhadj Hmida, proibita al di fuori della preghiera, senza autorizzazione del governo, e passibile di sei mesi di prigione. Un'altra riunione, tenuta il 12 febbraio nella grande sala della Cupola d’El Menzah di Tunisi, davanti migliaia di persone, ha fatto scattare la seconda denuncia da parte di un collettivo di avvocati, per "incitamento all'odio".
Filmati, gli interventi di Wadji Ghonim, che si esprimeva in dialetto egiziano, barba bianca ben curata, completo e cravatta scuri, hanno suscitato un'ondata di reazioni molto vivaci. « Prego Dio che la Tunisia, come fu la prima a fare la rivoluzione, sia la prima ad applicare la shari'a », ha detto a Sousse, prima di fustigare i laici e concludere: "Tunisia, Tunisia, islamica! No no alla laicità!"
A Tunisi, per più di un'ora, il prredicatore si è scagliato contro quelli "che detestano l'Islam", i "cani", prima di lanciarsi in un lungo sviluppo sull'incompatibilità tra la pratica sportiva e un abbigliamento decente per le donne. Ha chiamato gli uomini a "lasciarsi crescere la barba". Ha poi glorificato i morti nella jihad citando un versetto tra i più conosciuti del Corano. Ma ha dovuto interrompersi e lasciare la sala dietro richiesta degli organizzatori, preoccupati della presenza di manifestanti all'esterno.
La sua presenza ed i suoi discorsi hanno scatenato una nuova battaglia tra progressisti e islamisti, un faccia a faccia che va avanti in Tunisia da dopo la vittoria del partito islamista El Naha e la formazione di un governo dominato dai suoi sostenitori. L’opposizione si preoccupa per la venuta di predicatori stranieri, senza che ci sia alcuna reazione da parte delle nuove autorità. "Il problema è che Ghonim non è il primo, assicura Belhadj Hmida. Ma è fuor discussione che le moschee divengano luoghi utilizzati a fini di parte, qualsiasi siano questi fini. In proposito, c'è preoccupazione per l'arrivo, a fine febbraio, per la prima volta in Tunisia, di Tareq Ramadan.
http://www.europe-israel.org/2012/02/tunisie-un-predicateur-egyptien-provoque-un-tolle-en-tunisie/
Argentina 1921: la mattanza degli ebrei
Federico Grote era un sacerdote tedesco; nel 1892 fondo' i Circoli
dell'Operaio Cattolico sulla base dell' esperienza della
sindacalizzazione cattolica tedesca " al fine di difendere e
promuovere il benessere materiale e spirituale della classe operaia, in
netto contrasto con la propaganda del socialismo che con promesse
ingannevoli, conduce il lavoratore alla sua rovina temporale ed eterna
... ", inaugurando precocemente la pratica della Chiesa cattolica di Argentina nella questione sociale.
I Circoli nel 1912 contavano 77 centri con 22,930 membri iscritti in tutto il paese. Non costituivano un sindacato in senso stretto, a causa dell'insufficiente numero di cattolici iscritti: impossibile raggrupparli per categorie. Presero quindi la forma di "associazione mutuale". L'azione sociale si rivolse in tre direzioni: la domanda di una legislazione del lavoro, lo sviluppo di iniziative che si facessero carico nell'immediato delle esigenze dei lavoratori e l'azione propagandistica per contrastare la crescente influenza delle correnti rivoluzionarie.
Fu un chiaro esponente del cattolicesimo sociale. Le gerarchie della Chiesa videro nei Circoli un ottimo veicolo per sensibilizzare grandi auditorium, mettendo in guardia dalle minacce rappresentate dal pericolo del bolscevismo nel mondo cristiano. Nel 1918 furono espressamente invitati i membri dei Gruppi di Lavoro a partecipare attivamente alla crociata antimaximalista e sempre più anti-semita per mezzo di conferenze di strada. Il loro intervento, come oratori o semplici ascoltatori entusiasti, era avvertire del pericolo che incombeva sull' Argentina, dove "si vedono bandiere(...) una nera e l'altra di un rosso osceno, per le strade di questa città cosmopolita; esse (sono) gli stracci della ribellione la vergogna, sporche di sangue e fatte d'odio, innalzate e seguite dagli emarginati e dalla feccia. "
Il principale e più noto esponente del movimento fu il sacerdote Dionisio Napal. Fu anche un provocatore. Amava esporre la sua predicazione antiebraica nel cuore dei quartieri con alta percentuale di popolazione ebraica.
L'8 dicembre 1918 pronunciò un discorso che assunse significato in ambito cattolico. Tra gli altri argomenti, parlo' del "fattore ebraico nei movimenti rivoluzionari del mondo." Identifico' la Rivoluzione d'ottobre con un complotto ebraico. Non era molto originale in questo. L'avevano già fatto i gruppi russi antisemiti, legati al regime zarista e integrati nell'Esercito Bianco che combatteva contro lo Stato debole e incipiente dei Soviet, provocando , nei territori sotto il loro controllo - in particolare in Ucraina, uccisioni di massa degli ebrei. Il mito si diffuse rapidamente in favore di un mondo in guerra che non assorbiva razionalmente i cambiamenti che si verificano ogni giorno.
La tesi del "complotto ebraico" fu accettata dai circoli conservatori inglesi che guardavano a Lenin (almeno fino al momento dell'armistizio che pose fine alla prima guerra mondiale) come a un avventuroso ebreo-tedesco,al soldo del Kaiser, ed al Soviet di Pietroburgo come un ricettacolo internazionale di ebrei, comprati e diretti dallo Stato Maggiore tedesco. Tuttavia, questa caratterizzazione, rozzamente antisemita, del carattere dei rivoluzionari sovietici non fu assunta dal Vaticano fino al 1920. Si può dedurre quindi che Napal, o era a conoscenza delle versioni che circolavano e funzionavano in Europa, e le utilizzo' per riproporre la perfidia degli ebrei, oppure si basava semplicemente sulla sua carica anti semita, senza curarsi di produrre alcuna prova per quel che predicava.
Al di là delle fonti da cui nutri' le sua certezze, favori', in vasti settori della borghesia, la convinzione che l'Ebreo, in quanto tale, era il responsabile della crescente inquietudine.
Oltre che provocatore, Napal era vigliacco miserabile. Le sue conferenze pubbliche nei quartieri ebraici e operai erano protette da una guardia di polizia e sicari. Negli ultimi giorni del 1918 aggiunse alle altre accuse rivolte agli ebrei quella di essere traditori e traditori, e defini' il socialismo come un handicap ebraico.
Allarmata, la stampa israelita argentina denuncio', in castigliano e in Yiddish, l'azione clericale. Dalla Presse, "i sacerdoti cominciarono a Corrientes e Junin. Poi continuarono con le loro prediche contro i socialisti e gli ebrei, con l'aiuto della polizia, in tutta Buenos Aires e la periferia. Domenica scorsa hanno organizzato una conferenza simile in Saenz e Esquiú Avenue, circondati dalla polizia e scortati da banditi locali, che erano armati di aste di acciaio. Dopo il rally c'è stata una dimostrazione. A Caseros y Rioja il prete Napal ha pronunciato un discorso oscuro e aggressivo ".
Tale discorso, oscuro e aggressivo, non era esclusivo di Napal . La figura del sacerdote era solo la punta emergente della situazione che abbiamo brevemente descritta. La somma di queste tensioni rafforzarono, alla fine del 1918, la sensazione di "Grande Paura" nella borghesia dell'Argentina. In molti settori di questa vasta classe sociale, era diventata inevitabile convinzione l'esistenza di una cospirazione. Diversi elementi interagirono tra di loro e la potenziarono: il clima di paura, voci su eventi inesistenti, che pero' spacciati per reali rafforzarono il panico di coloro che si sentivano minacciati nei loro interessi e nelle persone e aumentarono la convinzione che solo una repressione esemplare avrebbe potuto porre fine al pericolo.
Tutto questo influenzo' gli eventi del primo gennaio 1919. Cio' che accadde allora, al di fuori dei limiti della "repressione legale dello Stato", non puo' essere misurato in termini scindibili. Non ci fu la repressione illegale diretta, distintamente, contro i lavoratori -in quanto tali - per dinamica sociale, e la persecuzione degli ebrei -anch'essi in quanto tali - prodotta da una logica razzista ma autonoma dall'altra. Al contrario, come ben sintetizza Lvovich, entrambi furono il risultato della "Grande Paura" che invase la borghesia, che credette di vedere nella repressione selvaggia e illegale, l'unico modo per terminare una "cospirazione", interpretata da un nemico dalle diverse facce .
(....)
Florencia Pagni y Fernando Cesaretti.
Escuela de Historia. Universidad Nacional de Rosario
grupo_efefe@yahoo.com.ar
http://grupoefefe.blogspot.com
http://grupoefefe.blogspot.com/2008/10/enero-rojo-la-semana-trgica-y-el-pogrom.html
http://bajurtov.wordpress.com/2012/02/19/una-mancha-en-la-historia-de-argentina-la-matanza-de-judios-del-ano-1919/
....80 morti, negozi bruciati, giovani presi a bastonate, anziani a cui fu tagliata la barba, ragazze violentate, donne umiliate. Quei giorni sono ricordati come "la Settimana Tragica". Ma la ferita più profonda che segna il quartiere è recente: l'attentato del 18 luglio 1994 alla sede dell'Amia, l'Associacion mutual israelita argentina, il principale ente di assistenza della comunità. Questa volta i morti furono 85 e 300 i feriti: impiegati dell'ufficio, gente in coda per cercare lavoro, passanti. Fu il più sanguinoso della storia argentina, preceduto da un'altra strage: nel 1992 scoppiò una bomba all'ambasciata israeliana di Buenos Aires causando 29 morti e 240 feriti. I due attentati hanno lasciato una paura che è palpabile ancora oggi davanti alle sinagoghe, al Club sportivo, alle scuole e alle associazioni ebraiche. Blocchi di cemento sui marciapiedi impediscono alle auto di parcheggiare o di avvicinarsi troppo agli edifici. Guardiani con l'auricolare e la pistola sotto la giacca fermano ogni visitatore sconosciuto. Senza autorizzazione è vietato l'ingresso. È proibito persino fotografare: uno scatto davanti alla sinagoga può costare un minuzioso interrogatorio al commissariato di polizia. Molti ricordano il giorno dell'attentato all'Amia: "Arrivai di corsa pochi minuti dopo l'esplosione", racconta un venditore di stoffe. "Il caos era totale: la gente correva, la luce era saltata, dai tubi usciva acqua, macerie dappertutto. E al posto del palazzo dell'Amia, c'era soltanto un grande buco". Un barista rievoca il momento dell'esplosione. "Ho ancora nelle orecchie le urla dei feriti. Un uragano di polvere, vetri rotti: come un film, ma era guerra". "Alcuni quotidiani argentini, il giorno dopo, scrissero che fra le vittime c'erano anche passanti "innocenti". Rimasi scioccata: significava forse che noi ebrei ci meritavamo quella strage?". A parlare è Romina Manguel, giornalista di Radio Del Plata, conduttrice di una delle trasmissioni più ascoltate dagli argentini. Sua figlia di pochi mesi si chiama Hania. Un nome ebraico. ""Bello", hanno commentato alcuni amici. Aggiungendo però: "Ma sei sicura che da grande non avrà problemi? Alle feste non la inviteranno a ballare", mi hanno detto. Meglio così, ho risposto. Non voglio che chi ha questi pregiudizi le si avvicini". Romina parla di un antisemitismo celato ma costante, che attraversa la storia argentina. Non è d'accordo il rabbino Daniel Goldman, punto di riferimento degli ebrei argentini più progressisti. "L'antisemitismo di oggi non è un fenomeno disgiunto da altri tipi di razzismo, come quello nei confronti degli immigrati boliviani, peruviani o di chi ha la pelle più scura. Ma la società argentina, evolvendosi, saprà elaborare questi pregiudizi". La comunità soffre molto il fatto che, dopo anni, non siano ancora stati trovati i colpevoli degli attentati all'Amia e all'ambasciata israeliana. I magistrati ritengono che le due bombe siano state messe da Hezbollah con la complicità di funzionari dell'ambasciata iraniana. Ma hanno messo in luce anche collegamenti con le forze di sicurezza argentine e tentativi di depistaggio. "Abbiamo pazienza e memoria", sostiene Jose Adaszko, vicepresidente dell'Amia. "La nostra richiesta di giustizia non è diversa da quella che ripetono le Madri di Plaza de Mayo per i loro figli desaparecidos". Due dolori che si sovrappongono. Tra i 30mila dispersi, circa il 5-10 per cento erano ebrei. "Una percentuale alta, se consideriamo che gli ebrei erano meno dell'1 per cento della popolazione", spiega lo scrittore Marcelo Birmajer. "La polizia li sequestrava per la loro militanza politica, ma nei centri di detenzione venivano torturati più degli altri, insultati in quanto ebrei". Marcelo, 41 anni, riceve i visitatori a piedi scalzi in un piccolo studio ingombro di libri. È la migliore guida per una passeggiata nel Barrio Once. Sul quartiere ha appena scritto un libro che intreccia ricordi d'infanzia, dati storici, leggende urbane. "È il luogo in cui sono nato, dove ho conosciuto gli oggetti, imparato a parlare. Da qui, bambino, sono partito per Israele. Sono tornato pochi mesi dopo perché mia madre aveva nostalgia", racconta. "Il fatto che il quartiere non si trovi su nessuna mappa mi stimola ancora di più a narrarlo, a entrarvi clandestinamente per scoprirne i segreti. L'infanzia all'Once è il conto che custodisco nella banca dell'immaginazione. Qui ci sono ebrei osservanti e laici, c'è l'incrocio del mio popolo con altre culture. Il mistero. C'è sempre un marciapiede maledetto su cui non devi passare, una casa stregata, un cortile dove misteriosamente è comparso un cavallo a mangiare l'erba. Tutto è riapparso nella mia memoria quando, da adulto, ho cominciato a inventare storie a partire da quelle che avevo ascoltato". Oggi però l'identità ebraica del quartiere si è diluita: sono arrivati migliaia di immigrati dall'Asia e da altri Paesi dell'America Latina. "Coreani e boliviani vendono la loro mercanzia in chioschi male illuminati. Allo stesso incrocio, la notte, posso ascoltare suoni di guerre tribali la cui origine mi è sconosciuta: bastoni e grida. Nell'ingresso di un negozio abbandonato alcuni ubriachi dormono accanto ai loro cartoni di vino", scrive Birmajer, che è anche l'autore della sceneggiatura del film El Abrazo Partido del regista argentino Daniel Burman, vincitore nel 2004 del Gran premio della giuria al Festival di Berlino. È ambientato a Once e i protagonisti sono ebrei della classe media, una fascia sociale che ha molto sofferto la crisi economica degli ultimi anni. L'incubo del 2001: fabbriche chiuse, conti in banca bloccati, cortei. Un ricordo bruciante per i commercianti di Once. "Passammo mesi senza vendere nulla", racconta il proprietario di una merceria. "Chi aveva risparmi, li ha spesi. Gli altri andarono a fare la fila alla mensa dei poveri o emigrarono". Nel 2002 molti ebrei argentini partirono per Israele: se ne andarono in 6.500. "Ricordo le file davanti ai templi e istituzioni ebraiche", spiega un barista. "Ti pagavano il viaggio e persino il rinnovo del passaporto. Un rabbino disse che c'erano più probabilità di morire di rapina o di crepacuore in Argentina che in Israele a causa di un attentato. Molti gli credettero". Secondo l'Amia però la maggioranza di quelli che partirono sono già tornati. Uno studio pubblicato dall'associazione traccia il ritratto di una comunità fortemente radicata nel Paese. "Io mi sento molto ebreo e molto argentino", sintetizza un medico. "Non me ne andrò mai". La maggioranza - secondo la ricerca - affolla le sinagoghe solo in occasione delle feste ebraiche. Non si preoccupa troppo di mangiare kasher né che i figli compiano il bar-mitzvà, il rito di passaggio alla vita adulta. "L'identità ebraica qui è più legata alla ritualità che alla religione", commenta il rabbino Daniel Goldman. La comunità non si è schierata nelle ultime elezioni presidenziali. La vittoria trionfante di Cristina Kirchner è stata salutata da molti con soddisfazione, ma anche con quel fondo di diffidenza che ormai fa parte dell'indole degli abitanti di Buenos Aires. "Se si vuole sopravvivere, bisogna abituarsi a cavalcare le difficoltà, a non toccare mai terra", conclude Marcelo. "Sono sempre disposto a imparare un nuovo lavoro, una nuova lingua. È faticoso, ma essere pronti ad affrontare le difficoltà ti rende più forte". Intanto, in strada un religioso guarda il sole che tramonta e corre al Tempio. È tempo di celebrare il Sabato.
Michela Sechi
http://d.repubblica.it/dmemory/2007/12/01/attualita/attualita/109yid576109.html
I Circoli nel 1912 contavano 77 centri con 22,930 membri iscritti in tutto il paese. Non costituivano un sindacato in senso stretto, a causa dell'insufficiente numero di cattolici iscritti: impossibile raggrupparli per categorie. Presero quindi la forma di "associazione mutuale". L'azione sociale si rivolse in tre direzioni: la domanda di una legislazione del lavoro, lo sviluppo di iniziative che si facessero carico nell'immediato delle esigenze dei lavoratori e l'azione propagandistica per contrastare la crescente influenza delle correnti rivoluzionarie.
Fu un chiaro esponente del cattolicesimo sociale. Le gerarchie della Chiesa videro nei Circoli un ottimo veicolo per sensibilizzare grandi auditorium, mettendo in guardia dalle minacce rappresentate dal pericolo del bolscevismo nel mondo cristiano. Nel 1918 furono espressamente invitati i membri dei Gruppi di Lavoro a partecipare attivamente alla crociata antimaximalista e sempre più anti-semita per mezzo di conferenze di strada. Il loro intervento, come oratori o semplici ascoltatori entusiasti, era avvertire del pericolo che incombeva sull' Argentina, dove "si vedono bandiere(...) una nera e l'altra di un rosso osceno, per le strade di questa città cosmopolita; esse (sono) gli stracci della ribellione la vergogna, sporche di sangue e fatte d'odio, innalzate e seguite dagli emarginati e dalla feccia. "
Il principale e più noto esponente del movimento fu il sacerdote Dionisio Napal. Fu anche un provocatore. Amava esporre la sua predicazione antiebraica nel cuore dei quartieri con alta percentuale di popolazione ebraica.
L'8 dicembre 1918 pronunciò un discorso che assunse significato in ambito cattolico. Tra gli altri argomenti, parlo' del "fattore ebraico nei movimenti rivoluzionari del mondo." Identifico' la Rivoluzione d'ottobre con un complotto ebraico. Non era molto originale in questo. L'avevano già fatto i gruppi russi antisemiti, legati al regime zarista e integrati nell'Esercito Bianco che combatteva contro lo Stato debole e incipiente dei Soviet, provocando , nei territori sotto il loro controllo - in particolare in Ucraina, uccisioni di massa degli ebrei. Il mito si diffuse rapidamente in favore di un mondo in guerra che non assorbiva razionalmente i cambiamenti che si verificano ogni giorno.
La tesi del "complotto ebraico" fu accettata dai circoli conservatori inglesi che guardavano a Lenin (almeno fino al momento dell'armistizio che pose fine alla prima guerra mondiale) come a un avventuroso ebreo-tedesco,al soldo del Kaiser, ed al Soviet di Pietroburgo come un ricettacolo internazionale di ebrei, comprati e diretti dallo Stato Maggiore tedesco. Tuttavia, questa caratterizzazione, rozzamente antisemita, del carattere dei rivoluzionari sovietici non fu assunta dal Vaticano fino al 1920. Si può dedurre quindi che Napal, o era a conoscenza delle versioni che circolavano e funzionavano in Europa, e le utilizzo' per riproporre la perfidia degli ebrei, oppure si basava semplicemente sulla sua carica anti semita, senza curarsi di produrre alcuna prova per quel che predicava.
Al di là delle fonti da cui nutri' le sua certezze, favori', in vasti settori della borghesia, la convinzione che l'Ebreo, in quanto tale, era il responsabile della crescente inquietudine.
Oltre che provocatore, Napal era vigliacco miserabile. Le sue conferenze pubbliche nei quartieri ebraici e operai erano protette da una guardia di polizia e sicari. Negli ultimi giorni del 1918 aggiunse alle altre accuse rivolte agli ebrei quella di essere traditori e traditori, e defini' il socialismo come un handicap ebraico.
Allarmata, la stampa israelita argentina denuncio', in castigliano e in Yiddish, l'azione clericale. Dalla Presse, "i sacerdoti cominciarono a Corrientes e Junin. Poi continuarono con le loro prediche contro i socialisti e gli ebrei, con l'aiuto della polizia, in tutta Buenos Aires e la periferia. Domenica scorsa hanno organizzato una conferenza simile in Saenz e Esquiú Avenue, circondati dalla polizia e scortati da banditi locali, che erano armati di aste di acciaio. Dopo il rally c'è stata una dimostrazione. A Caseros y Rioja il prete Napal ha pronunciato un discorso oscuro e aggressivo ".
Tale discorso, oscuro e aggressivo, non era esclusivo di Napal . La figura del sacerdote era solo la punta emergente della situazione che abbiamo brevemente descritta. La somma di queste tensioni rafforzarono, alla fine del 1918, la sensazione di "Grande Paura" nella borghesia dell'Argentina. In molti settori di questa vasta classe sociale, era diventata inevitabile convinzione l'esistenza di una cospirazione. Diversi elementi interagirono tra di loro e la potenziarono: il clima di paura, voci su eventi inesistenti, che pero' spacciati per reali rafforzarono il panico di coloro che si sentivano minacciati nei loro interessi e nelle persone e aumentarono la convinzione che solo una repressione esemplare avrebbe potuto porre fine al pericolo.
Tutto questo influenzo' gli eventi del primo gennaio 1919. Cio' che accadde allora, al di fuori dei limiti della "repressione legale dello Stato", non puo' essere misurato in termini scindibili. Non ci fu la repressione illegale diretta, distintamente, contro i lavoratori -in quanto tali - per dinamica sociale, e la persecuzione degli ebrei -anch'essi in quanto tali - prodotta da una logica razzista ma autonoma dall'altra. Al contrario, come ben sintetizza Lvovich, entrambi furono il risultato della "Grande Paura" che invase la borghesia, che credette di vedere nella repressione selvaggia e illegale, l'unico modo per terminare una "cospirazione", interpretata da un nemico dalle diverse facce .
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Florencia Pagni y Fernando Cesaretti.
Escuela de Historia. Universidad Nacional de Rosario
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....80 morti, negozi bruciati, giovani presi a bastonate, anziani a cui fu tagliata la barba, ragazze violentate, donne umiliate. Quei giorni sono ricordati come "la Settimana Tragica". Ma la ferita più profonda che segna il quartiere è recente: l'attentato del 18 luglio 1994 alla sede dell'Amia, l'Associacion mutual israelita argentina, il principale ente di assistenza della comunità. Questa volta i morti furono 85 e 300 i feriti: impiegati dell'ufficio, gente in coda per cercare lavoro, passanti. Fu il più sanguinoso della storia argentina, preceduto da un'altra strage: nel 1992 scoppiò una bomba all'ambasciata israeliana di Buenos Aires causando 29 morti e 240 feriti. I due attentati hanno lasciato una paura che è palpabile ancora oggi davanti alle sinagoghe, al Club sportivo, alle scuole e alle associazioni ebraiche. Blocchi di cemento sui marciapiedi impediscono alle auto di parcheggiare o di avvicinarsi troppo agli edifici. Guardiani con l'auricolare e la pistola sotto la giacca fermano ogni visitatore sconosciuto. Senza autorizzazione è vietato l'ingresso. È proibito persino fotografare: uno scatto davanti alla sinagoga può costare un minuzioso interrogatorio al commissariato di polizia. Molti ricordano il giorno dell'attentato all'Amia: "Arrivai di corsa pochi minuti dopo l'esplosione", racconta un venditore di stoffe. "Il caos era totale: la gente correva, la luce era saltata, dai tubi usciva acqua, macerie dappertutto. E al posto del palazzo dell'Amia, c'era soltanto un grande buco". Un barista rievoca il momento dell'esplosione. "Ho ancora nelle orecchie le urla dei feriti. Un uragano di polvere, vetri rotti: come un film, ma era guerra". "Alcuni quotidiani argentini, il giorno dopo, scrissero che fra le vittime c'erano anche passanti "innocenti". Rimasi scioccata: significava forse che noi ebrei ci meritavamo quella strage?". A parlare è Romina Manguel, giornalista di Radio Del Plata, conduttrice di una delle trasmissioni più ascoltate dagli argentini. Sua figlia di pochi mesi si chiama Hania. Un nome ebraico. ""Bello", hanno commentato alcuni amici. Aggiungendo però: "Ma sei sicura che da grande non avrà problemi? Alle feste non la inviteranno a ballare", mi hanno detto. Meglio così, ho risposto. Non voglio che chi ha questi pregiudizi le si avvicini". Romina parla di un antisemitismo celato ma costante, che attraversa la storia argentina. Non è d'accordo il rabbino Daniel Goldman, punto di riferimento degli ebrei argentini più progressisti. "L'antisemitismo di oggi non è un fenomeno disgiunto da altri tipi di razzismo, come quello nei confronti degli immigrati boliviani, peruviani o di chi ha la pelle più scura. Ma la società argentina, evolvendosi, saprà elaborare questi pregiudizi". La comunità soffre molto il fatto che, dopo anni, non siano ancora stati trovati i colpevoli degli attentati all'Amia e all'ambasciata israeliana. I magistrati ritengono che le due bombe siano state messe da Hezbollah con la complicità di funzionari dell'ambasciata iraniana. Ma hanno messo in luce anche collegamenti con le forze di sicurezza argentine e tentativi di depistaggio. "Abbiamo pazienza e memoria", sostiene Jose Adaszko, vicepresidente dell'Amia. "La nostra richiesta di giustizia non è diversa da quella che ripetono le Madri di Plaza de Mayo per i loro figli desaparecidos". Due dolori che si sovrappongono. Tra i 30mila dispersi, circa il 5-10 per cento erano ebrei. "Una percentuale alta, se consideriamo che gli ebrei erano meno dell'1 per cento della popolazione", spiega lo scrittore Marcelo Birmajer. "La polizia li sequestrava per la loro militanza politica, ma nei centri di detenzione venivano torturati più degli altri, insultati in quanto ebrei". Marcelo, 41 anni, riceve i visitatori a piedi scalzi in un piccolo studio ingombro di libri. È la migliore guida per una passeggiata nel Barrio Once. Sul quartiere ha appena scritto un libro che intreccia ricordi d'infanzia, dati storici, leggende urbane. "È il luogo in cui sono nato, dove ho conosciuto gli oggetti, imparato a parlare. Da qui, bambino, sono partito per Israele. Sono tornato pochi mesi dopo perché mia madre aveva nostalgia", racconta. "Il fatto che il quartiere non si trovi su nessuna mappa mi stimola ancora di più a narrarlo, a entrarvi clandestinamente per scoprirne i segreti. L'infanzia all'Once è il conto che custodisco nella banca dell'immaginazione. Qui ci sono ebrei osservanti e laici, c'è l'incrocio del mio popolo con altre culture. Il mistero. C'è sempre un marciapiede maledetto su cui non devi passare, una casa stregata, un cortile dove misteriosamente è comparso un cavallo a mangiare l'erba. Tutto è riapparso nella mia memoria quando, da adulto, ho cominciato a inventare storie a partire da quelle che avevo ascoltato". Oggi però l'identità ebraica del quartiere si è diluita: sono arrivati migliaia di immigrati dall'Asia e da altri Paesi dell'America Latina. "Coreani e boliviani vendono la loro mercanzia in chioschi male illuminati. Allo stesso incrocio, la notte, posso ascoltare suoni di guerre tribali la cui origine mi è sconosciuta: bastoni e grida. Nell'ingresso di un negozio abbandonato alcuni ubriachi dormono accanto ai loro cartoni di vino", scrive Birmajer, che è anche l'autore della sceneggiatura del film El Abrazo Partido del regista argentino Daniel Burman, vincitore nel 2004 del Gran premio della giuria al Festival di Berlino. È ambientato a Once e i protagonisti sono ebrei della classe media, una fascia sociale che ha molto sofferto la crisi economica degli ultimi anni. L'incubo del 2001: fabbriche chiuse, conti in banca bloccati, cortei. Un ricordo bruciante per i commercianti di Once. "Passammo mesi senza vendere nulla", racconta il proprietario di una merceria. "Chi aveva risparmi, li ha spesi. Gli altri andarono a fare la fila alla mensa dei poveri o emigrarono". Nel 2002 molti ebrei argentini partirono per Israele: se ne andarono in 6.500. "Ricordo le file davanti ai templi e istituzioni ebraiche", spiega un barista. "Ti pagavano il viaggio e persino il rinnovo del passaporto. Un rabbino disse che c'erano più probabilità di morire di rapina o di crepacuore in Argentina che in Israele a causa di un attentato. Molti gli credettero". Secondo l'Amia però la maggioranza di quelli che partirono sono già tornati. Uno studio pubblicato dall'associazione traccia il ritratto di una comunità fortemente radicata nel Paese. "Io mi sento molto ebreo e molto argentino", sintetizza un medico. "Non me ne andrò mai". La maggioranza - secondo la ricerca - affolla le sinagoghe solo in occasione delle feste ebraiche. Non si preoccupa troppo di mangiare kasher né che i figli compiano il bar-mitzvà, il rito di passaggio alla vita adulta. "L'identità ebraica qui è più legata alla ritualità che alla religione", commenta il rabbino Daniel Goldman. La comunità non si è schierata nelle ultime elezioni presidenziali. La vittoria trionfante di Cristina Kirchner è stata salutata da molti con soddisfazione, ma anche con quel fondo di diffidenza che ormai fa parte dell'indole degli abitanti di Buenos Aires. "Se si vuole sopravvivere, bisogna abituarsi a cavalcare le difficoltà, a non toccare mai terra", conclude Marcelo. "Sono sempre disposto a imparare un nuovo lavoro, una nuova lingua. È faticoso, ma essere pronti ad affrontare le difficoltà ti rende più forte". Intanto, in strada un religioso guarda il sole che tramonta e corre al Tempio. È tempo di celebrare il Sabato.
Michela Sechi
http://d.repubblica.it/dmemory/2007/12/01/attualita/attualita/109yid576109.html
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