Lettera aperta, 24 maggio 2012
Cari fratelli, cari amici, d’Algeria, di Palestina, d’Israele e d’altrove,
Scrivo queste poche righe per darvi mie notizie. Forse siete preoccupati per me. Io sono un uomo semplice, sapete, uno scrittore che non ha mai preteso altro che la felicità di raccontare storie, queste storie “da non raccontare”, come dice il mio amico regista, Jean-Pierre Lledo , ma ecco che la gente ha deciso di interferire nelle nostre relazioni di fraternità e di amicizia e hanno fatto di me un oggetto di scandalo.
Rendetevi conto, mi accusano niente di meno che di alto tradimento della nazione araba e del mondo musulmano nella sua interezza. Vuol dire che non ci sarà nemmeno un processo. Queste persone sono di Hamas, persone pericolose e calcolatrici, che hanno preso in ostaggio la povera gente di Gaza e la ricattano ogni giorno da anni, in una specie di buco nero, assicurato dal blocco israeliano, e ora vengono a dettare a noi, a noi che in tutte le maniere cerchiamo di liberarcene, quello che dobbiamo pensare, dire e fare e ci sono anche altri, individui anonimi, amareggiati e pieni di fiele, chiusi a tutti, che ritrasmettono l’odio come possono, attraverso la rete. E’ attraverso loro, per mezzo dei loro comunicati vendicativi ed i loro insulti a tutto tondo, che avete saputo del mio viaggio e io sono qui per confermare, perché non ci sia confusione nelle vostre menti e per fare chiarezza tra le noi: SONO ANDATO IN ISRAELE.
Che viaggio! e che accoglienza! Perdonatemi per non averlo io stesso annunciato prima di partire, ma capirete, ci voleva discrezione, Israele non è una meta turistica per gli arabi, anche se… quelli, non pochi, che mi hanno preceduto in questa terra di latte e miele, lo hanno fatto di nascosto, con nomi falsi o passaporti presi a prestito, come a suo tempo fece la coraggiosa signora Khalida Toumi, allepoca fervente oppositrice al regime poliziesco e fondamentalista in Algeria, ed oggi brillante ministro della cultura, impegnatissima nella caccia ai traditori, agli apostati e agli harkis.
E’ a lei in particolare che gli algerini devono il loro vivere ogni giorno i problemi e la rabbia nel loro bel paese. I suoi doganieri non mi avrebbero mai lasciato uscire, se mi fossi presentato con un biglietto d’aereo Algeri / Tel Aviv in una mano e nell’altra un visto israeliano appena incollato sul mio passaporto bello verde. Mi domando se si sarebbero spinti a gasarmi. Ho agito altrimenti e l’astuzia ha pagato: ho preso la via della Francia, munito di un visto israeliano “volante” recuperato a Parigi, rue Rabelais, ed ora mi trovo in possesso di mille e una storia che mi riprometto di raccontarvi in dettaglio in un prossimo libro, se Dio ci concede la vita.
Vi parlero’ di Israele e degli israeliani, di come li possiamo vedere con i nostri propri occhi, sul posto, senza intermediari, lontano dalla dottrina, ed essendo certi di non dover subire nessuna “prova della verità” al ritorno. Il fatto è che in questo mondo non c’è un altro paese e un altro popolo come loro. Mi affascina e mi rassicura che ognuno di noi sia unico. L’unicità infastidisce, è vero, ma tendiamo ad amarla, perché la perdita è davvero irreparabile.
Parlerò anche di Gerusalemme, Al-Quds. Mi sembra di aver percepito che questo posto non sia davvero una città ed i suoi abitanti non siano realmente tali; c’è un’irrealtà nell’aria e certezze di un tipo sconosciuto sulla terra. Nella vecchia città multimillenaria, è semplicemente inutile cercare di capire, tutto è sogno e magia, vi si incontrano i profeti, i più grandi, ed i re, i più maestosi, li interroghiamo, parliamo loro come ad amici del quartiere: Abramo, Davide, Salomone, Maria, Gesù e Maometto l’ultimo della linea, che la salvezza sia su di loro, passando da un mistero all’altro, senza transizione, ci si muove attraverso i millenni e il paradosso, in un cielo uniformemente bianco ed il sole, sempre ardente. Il presente e le novità sembrano talmente effimere che ben presto non ci pensiamo più. Se esiste un viaggio celeste in questo mondo, è qui che tutto comincia. E non è qui che Cristo ha fatto la sua ascensione al cielo, e Maometto il suo Mi’raj sul suo destriero Buraq, guidato dall’angelo Gabriele?
Ci si chiede quale sia il fenomeno che tiene tutto in ordine, in modo molto moderno, del resto, perché Gerusalemme è una città, vera e propria capitale, con strade pulite, marciapiedi lastricati, case solide, auto dinamiche, alberghi e ristoranti interessanti, alberi ben curati, e tanti turisti provenienti da tutti i paesi… ad eccezione dei paesi arabi, soli nel mondo a non poter venire, a non essere in grado di visitare il loro luogo di nascita, il luogo magico dove nascono le loro religioni, la cristiana così come quella musulmana.
Sono gli arabi e gli ebrei israeliani che ne beneficiano, li vedono tutti i giorni, tutto l’anno, mattina e sera, apparentemente senza mai stancarsi del loro mistero. Non possiamo contare i turisti in questi labirinti, sono troppo numerosi, più dei nativi, e la maggior parte si comportano come se fossero pellegrini venuti da lontano.
Raggruppamenti compatti che si incrociano tra loro senza mescolarsi: inglesi, indù, giapponesi, cinesi, francesi, olandesi, etiopi, brasiliani, ecc, accompagnati da guide instancabili, che giorno dopo giorno, in ogni linguaggio della creazione, raccontano alla folla incantata la leggenda dei secoli. Se si tende l’orecchio, si capisce davvero che si tratta di una città celeste e terrestre allo stesso tempo, e perché tutti vogliano possederla e morire per lei.
Quando si vuole l’eternità, ci si uccide per averla, è stupido, ma si può capire. Io stesso mi sono sentito diverso, schiacciato dal peso delle mie domande, io, il solo del gruppo ad aver toccato con le sue mani i tre luoghi sacri della Città Eterna: il Kotel (Muro del Pianto), il Santo Sepolcro e la Cupola della Roccia. In quanto ebrei o cristiani, i miei compagni, gli altri scrittori del festival, non potevano accedere al Monte del Tempio, il terzo luogo sacro dell’Islam, dove sorgono la Cupola della Roccia, Qubat as- Sakhrah, scintillante nel suo colore azzurro, e l’imponente moschea di al-Aqsa, Haram al-Sharif. Sono stati ricacciati indietro, senza esitazione, dall’agente del Waqf, assistito da due poliziotti israeliani di guardia all’ingresso della Spianata, per preservarla da ogni contatto non-halal.
Sono passato grazie al mio passaporto che attesta il mio essere algerino e cosi’, per deduzione, musulmano. Non ho negato, al contrario, ho recitato un versetto del Corano, riesumato dai miei ricordi d’infanzia, che apertamente ha sbalordito il portiere: era la prima volta nella sua vita che vedeva un algerino. Credeva che, a parte l’emiro Abd-el-Kader, fossero tutti un po' sefarditi, un po’ atei, un po’ qualche altra cosa. E’ divertente, il mio piccolo passaporto verde mi ha aperto le frontiere dei luoghi santi più velocemente di quanto mi abbia aperto le frontierei Schengen in Europa, dove la sola vista di un passaporto verde risveglia immediatamente l’ulcera dei doganieri.
Beh, vi dico francamente, da questo viaggio sono tornato felice e soddisfatto. Ho sempre creduto che fare non fosse la cosa più difficile, ma mettersi in condizione di essere pronto a iniziare a farlo.
La rivoluzione è qui, nell’idea intima che siamo finalmente pronti a muoverci, a cambiare sé stessi per cambiare il mondo. E’ il primo passo, molto più che l’ultimo, a farci raggiungere l’obiettivo. Mi sono detto che la pace è soprattutto una questione di uomini: è questione troppo seria per essere lasciata nelle mani dei governi o, ancora meno, dei partiti. Parlano di territorio, di sicurezza, di soldi, di condizioni, di garanzie, firmano documenti, fanno cerimonie, alzano bandiere, preparano piani B.
Gli uomini non fanno nulla di tutto questo, fanno cio’ che fanno gli uomini: vanno al caffè, al ristorante, si siedono intorno al fuoco, si riuniscono in uno stadio, si trovano a un festival, su una spiaggia e condividono bei momenti, mescolano le loro emozioni e alla fine si fanno la promessa di incontrarsi di nuovo. “Ci vediamo domani”, “Cin cin”, “L’anno prossimo a Gerusalemme”, dicono. Questo è quello che abbiamo fatto a Gerusalemme. Uomini e donne di molti paesi, scrittori, riuniti in un festival della letteratura a parlare dei loro libri, dei loro sentimenti davanti al dolore del mondo e altro, e soprattutto di ciò che mette gli uomini nelle condizioni di poter un giorno cominciare a fare la pace, e alla fine ci siamo promessi di rivederci, di scriverci almeno.
Non mi ricordo che in quei cinque giorni e notti trascorsi a Gerusalemme (il terzo giorno, con un rapido ritorno a Tel Aviv per condividere una splendida serata con i nostri amici dell’Istituto francese), abbia una sola volta parlato della guerra. L’abbiamo scordata, abbiamo evitato di parlarne o abbiamo fatto come se un’epoca fosse passata e fosse arrivato il momento di parlare di pace e di futuro? Indubbiamente, non si può parlare sia di guerra e pace allo stesso momento, una esclude l’altra.
Mi è dispiaciuto molto, però, non ci fosse nessun palestinese tra noi. Dopo tutto, la pace è da fare tra israeliani e palestinesi. Io non sono in guerra né con l’uno né con l’altro e non so perché li amo entrambi, allo stesso modo, come fratelli dall’inizio del mondo. Sarei in pace se, in un giorno non lontano, fossi invitato a Ramallah, con degli scrittori israeliani; è un bel posto per parlare di pace e di quel famoso primo passo che permetta di andarci.
Voglio in special modo ricordare David Grossman, questo monumento della letteratura israeliana e mondiale. Ho trovato formidabile che due scrittori come noi, due uomini onorati con lo stesso premio, il “Friedenspreis des Deutschen Buchhandels”, il Premio per la Pace dei librai tedeschi, a un anno di distanza, lui nel 2010, io nel 2011, si ritrovino insieme nel 2012 a parlare di pace, in questa città, Gerusalemme, al-Quds, dove ebrei e arabi convivono, dove le tre religioni del libro si dividono il cuore umano. Il nostro incontro sarà l’inizio di un grande raduno di scrittori per la pace? Questo miracolo si produrrà nel 2013? Spesso il caso è malizioso e ci fa dire cose che non devono nulla al caso.
Da qualche parte, sulla strada di casa, tra Gerusalemme e Algeri.
Boualem Sansal
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