Federico Grote era un sacerdote tedesco; nel 1892 fondo' i Circoli
dell'Operaio Cattolico sulla base dell' esperienza della
sindacalizzazione cattolica tedesca " al fine di difendere e
promuovere il benessere materiale e spirituale della classe operaia, in
netto contrasto con la propaganda del socialismo che con promesse
ingannevoli, conduce il lavoratore alla sua rovina temporale ed eterna
... ", inaugurando precocemente la pratica della Chiesa cattolica di Argentina nella questione sociale.
I
Circoli nel 1912 contavano 77 centri con 22,930 membri iscritti in
tutto il paese. Non costituivano un sindacato in senso stretto, a causa
dell'insufficiente numero di cattolici iscritti: impossibile
raggrupparli per categorie. Presero quindi la forma di "associazione
mutuale". L'azione sociale si rivolse in tre direzioni: la domanda di
una legislazione del lavoro, lo sviluppo di iniziative che si facessero
carico nell'immediato delle esigenze dei lavoratori e l'azione
propagandistica per contrastare la crescente influenza delle correnti
rivoluzionarie.
Fu un chiaro esponente del cattolicesimo
sociale. Le gerarchie della Chiesa videro nei Circoli un ottimo veicolo
per sensibilizzare grandi auditorium, mettendo in guardia dalle minacce
rappresentate dal pericolo del bolscevismo nel mondo cristiano. Nel 1918
furono espressamente invitati i membri dei Gruppi di Lavoro a
partecipare attivamente alla crociata antimaximalista e sempre più
anti-semita per mezzo di conferenze di strada. Il loro intervento, come
oratori o semplici ascoltatori entusiasti, era avvertire del pericolo
che incombeva sull' Argentina, dove "si vedono bandiere(...) una
nera e l'altra di un rosso osceno, per le strade di questa città
cosmopolita; esse (sono) gli stracci della ribellione la vergogna,
sporche di sangue e fatte d'odio, innalzate e seguite dagli emarginati e
dalla feccia. "
Il principale e più noto
esponente del movimento fu il sacerdote Dionisio Napal. Fu anche un
provocatore. Amava esporre la sua predicazione antiebraica nel cuore dei
quartieri con alta percentuale di popolazione ebraica.
L'8 dicembre 1918 pronunciò un discorso che assunse significato in ambito cattolico. Tra gli altri argomenti, parlo' del "fattore ebraico nei movimenti rivoluzionari del mondo."
Identifico' la Rivoluzione d'ottobre con un complotto ebraico. Non era
molto originale in questo. L'avevano già fatto i gruppi russi
antisemiti, legati al regime zarista e integrati nell'Esercito Bianco
che combatteva contro lo Stato debole e incipiente dei Soviet,
provocando , nei territori sotto il loro controllo - in particolare in
Ucraina, uccisioni di massa degli ebrei. Il mito si diffuse rapidamente
in favore di un mondo in guerra che non assorbiva razionalmente i
cambiamenti che si verificano ogni giorno.
La tesi
del "complotto ebraico" fu accettata dai circoli conservatori inglesi
che guardavano a Lenin (almeno fino al momento dell'armistizio che pose
fine alla prima guerra mondiale) come a un avventuroso ebreo-tedesco,al
soldo del Kaiser, ed al Soviet di Pietroburgo come un ricettacolo
internazionale di ebrei, comprati e diretti dallo Stato Maggiore
tedesco. Tuttavia, questa caratterizzazione, rozzamente antisemita, del
carattere dei rivoluzionari sovietici non fu assunta dal Vaticano fino
al 1920. Si può dedurre quindi che Napal, o era a conoscenza delle
versioni che circolavano e funzionavano in Europa, e le utilizzo' per
riproporre la perfidia degli ebrei, oppure si basava semplicemente sulla
sua carica anti semita, senza curarsi di produrre alcuna prova per quel
che predicava.
Al di là delle fonti da cui nutri' le sua
certezze, favori', in vasti settori della borghesia, la convinzione che
l'Ebreo, in quanto tale, era il responsabile della crescente
inquietudine.
Oltre che provocatore, Napal era vigliacco
miserabile. Le sue conferenze pubbliche nei quartieri ebraici e operai
erano protette da una guardia di polizia e sicari. Negli ultimi giorni
del 1918 aggiunse alle altre accuse rivolte agli ebrei quella di essere
traditori e traditori, e defini' il socialismo come un handicap ebraico.
Allarmata, la stampa israelita argentina denuncio', in castigliano e in Yiddish, l'azione clericale. Dalla Presse, "i
sacerdoti cominciarono a Corrientes e Junin. Poi continuarono con le
loro prediche contro i socialisti e gli ebrei, con l'aiuto della
polizia, in tutta Buenos Aires e la periferia. Domenica scorsa hanno
organizzato una conferenza simile in Saenz e Esquiú Avenue, circondati
dalla polizia e scortati da banditi locali, che erano armati di aste di
acciaio. Dopo il rally c'è stata una dimostrazione. A Caseros y Rioja
il prete Napal ha pronunciato un discorso oscuro e aggressivo ".
Tale
discorso, oscuro e aggressivo, non era esclusivo di Napal . La figura
del sacerdote era solo la punta emergente della situazione che abbiamo
brevemente descritta. La somma di queste tensioni rafforzarono, alla
fine del 1918, la sensazione di "Grande Paura" nella borghesia
dell'Argentina. In molti settori di questa vasta classe sociale, era
diventata inevitabile convinzione l'esistenza di una cospirazione.
Diversi elementi interagirono tra di loro e la potenziarono: il clima di
paura, voci su eventi inesistenti, che pero' spacciati per reali
rafforzarono il panico di coloro che si sentivano minacciati nei loro
interessi e nelle persone e aumentarono la convinzione che solo una
repressione esemplare avrebbe potuto porre fine al pericolo.
Tutto
questo influenzo' gli eventi del primo gennaio 1919. Cio' che accadde
allora, al di fuori dei limiti della "repressione legale dello Stato",
non puo' essere misurato in termini scindibili. Non ci fu la repressione
illegale diretta, distintamente, contro i lavoratori -in quanto tali -
per dinamica sociale, e la persecuzione degli ebrei -anch'essi in quanto
tali - prodotta da una logica razzista ma autonoma dall'altra. Al
contrario, come ben sintetizza Lvovich, entrambi furono il risultato
della "Grande Paura" che invase la borghesia, che credette di vedere
nella repressione selvaggia e illegale, l'unico modo per terminare una
"cospirazione", interpretata da un nemico dalle diverse facce .
(....)
Florencia Pagni y Fernando Cesaretti.
Escuela de Historia. Universidad Nacional de Rosario
grupo_efefe@yahoo.com.ar
http://grupoefefe.blogspot.com
http://grupoefefe.blogspot.com/2008/10/enero-rojo-la-semana-trgica-y-el-pogrom.html
http://bajurtov.wordpress.com/2012/02/19/una-mancha-en-la-historia-de-argentina-la-matanza-de-judios-del-ano-1919/
....80
morti, negozi bruciati, giovani presi a bastonate, anziani a cui fu
tagliata la barba, ragazze violentate, donne umiliate. Quei giorni sono
ricordati come "la Settimana Tragica". Ma la ferita più profonda che
segna il quartiere è recente: l'attentato del 18 luglio 1994 alla sede
dell'Amia, l'Associacion mutual israelita argentina, il principale ente
di assistenza della comunità. Questa volta i morti furono 85 e 300 i
feriti: impiegati dell'ufficio, gente in coda per cercare lavoro,
passanti. Fu il più sanguinoso della storia argentina, preceduto da
un'altra strage: nel 1992 scoppiò una bomba all'ambasciata israeliana
di Buenos Aires causando 29 morti e 240 feriti. I due attentati hanno
lasciato una paura che è palpabile ancora oggi davanti alle sinagoghe,
al Club sportivo, alle scuole e alle associazioni ebraiche. Blocchi di
cemento sui marciapiedi impediscono alle auto di parcheggiare o di
avvicinarsi troppo agli edifici. Guardiani con l'auricolare e la
pistola sotto la giacca fermano ogni visitatore sconosciuto. Senza
autorizzazione è vietato l'ingresso. È proibito persino fotografare:
uno scatto davanti alla sinagoga può costare un minuzioso
interrogatorio al commissariato di polizia. Molti ricordano il giorno
dell'attentato all'Amia: "Arrivai di corsa pochi minuti dopo
l'esplosione", racconta un venditore di stoffe. "Il caos era totale: la
gente correva, la luce era saltata, dai tubi usciva acqua, macerie
dappertutto. E al posto del palazzo dell'Amia, c'era soltanto un grande
buco". Un barista rievoca il momento dell'esplosione. "Ho ancora nelle
orecchie le urla dei feriti. Un uragano di polvere, vetri rotti: come
un film, ma era guerra". "Alcuni quotidiani argentini, il giorno dopo,
scrissero che fra le vittime c'erano anche passanti "innocenti". Rimasi
scioccata: significava forse che noi ebrei ci meritavamo quella
strage?". A parlare è Romina Manguel, giornalista di Radio Del Plata,
conduttrice di una delle trasmissioni più ascoltate dagli argentini. Sua
figlia di pochi mesi si chiama Hania. Un nome ebraico. ""Bello", hanno
commentato alcuni amici. Aggiungendo però: "Ma sei sicura che da
grande non avrà problemi? Alle feste non la inviteranno a ballare", mi
hanno detto. Meglio così, ho risposto. Non voglio che chi ha questi
pregiudizi le si avvicini". Romina parla di un antisemitismo celato ma
costante, che attraversa la storia argentina. Non è d'accordo il
rabbino Daniel Goldman, punto di riferimento degli ebrei argentini più
progressisti. "L'antisemitismo di oggi non è un fenomeno disgiunto da
altri tipi di razzismo, come quello nei confronti degli immigrati
boliviani, peruviani o di chi ha la pelle più scura. Ma la società
argentina, evolvendosi, saprà elaborare questi pregiudizi". La comunità
soffre molto il fatto che, dopo anni, non siano ancora stati trovati i
colpevoli degli attentati all'Amia e all'ambasciata israeliana. I
magistrati ritengono che le due bombe siano state messe da Hezbollah
con la complicità di funzionari dell'ambasciata iraniana. Ma hanno
messo in luce anche collegamenti con le forze di sicurezza argentine e
tentativi di depistaggio. "Abbiamo pazienza e memoria", sostiene Jose
Adaszko, vicepresidente dell'Amia. "La nostra richiesta di giustizia
non è diversa da quella che ripetono le Madri di Plaza de Mayo per i
loro figli desaparecidos". Due dolori che si sovrappongono. Tra i
30mila dispersi, circa il 5-10 per cento erano ebrei. "Una percentuale
alta, se consideriamo che gli ebrei erano meno dell'1 per cento della
popolazione", spiega lo scrittore Marcelo Birmajer. "La polizia li
sequestrava per la loro militanza politica, ma nei centri di detenzione
venivano torturati più degli altri, insultati in quanto ebrei".
Marcelo, 41 anni, riceve i visitatori a piedi scalzi in un piccolo
studio ingombro di libri. È la migliore guida per una passeggiata nel
Barrio Once. Sul quartiere ha appena scritto un libro che intreccia
ricordi d'infanzia, dati storici, leggende urbane. "È il luogo in cui
sono nato, dove ho conosciuto gli oggetti, imparato a parlare. Da qui,
bambino, sono partito per Israele. Sono tornato pochi mesi dopo perché
mia madre aveva nostalgia", racconta. "Il fatto che il quartiere non si
trovi su nessuna mappa mi stimola ancora di più a narrarlo, a entrarvi
clandestinamente per scoprirne i segreti. L'infanzia all'Once è il
conto che custodisco nella banca dell'immaginazione. Qui ci sono ebrei
osservanti e laici, c'è l'incrocio del mio popolo con altre culture.
Il mistero. C'è sempre un marciapiede maledetto su cui non devi
passare, una casa stregata, un cortile dove misteriosamente è comparso
un cavallo a mangiare l'erba. Tutto è riapparso nella mia memoria
quando, da adulto, ho cominciato a inventare storie a partire da quelle
che avevo ascoltato". Oggi però l'identità ebraica del quartiere si è
diluita: sono arrivati migliaia di immigrati dall'Asia e da altri Paesi
dell'America Latina. "Coreani e boliviani vendono la loro mercanzia
in chioschi male illuminati. Allo stesso incrocio, la notte, posso
ascoltare suoni di guerre tribali la cui origine mi è sconosciuta:
bastoni e grida. Nell'ingresso di un negozio abbandonato alcuni ubriachi
dormono accanto ai loro cartoni di vino", scrive Birmajer, che è anche
l'autore della sceneggiatura del film El Abrazo Partido del regista
argentino Daniel Burman, vincitore nel 2004 del Gran premio della giuria
al Festival di Berlino. È ambientato a Once e i protagonisti sono
ebrei della classe media, una fascia sociale che ha molto sofferto la
crisi economica degli ultimi anni. L'incubo del 2001: fabbriche chiuse,
conti in banca bloccati, cortei. Un ricordo bruciante per i
commercianti di Once. "Passammo mesi senza vendere nulla", racconta il
proprietario di una merceria. "Chi aveva risparmi, li ha spesi. Gli
altri andarono a fare la fila alla mensa dei poveri o emigrarono". Nel
2002 molti ebrei argentini partirono per Israele: se ne andarono in
6.500. "Ricordo le file davanti ai templi e istituzioni ebraiche",
spiega un barista. "Ti pagavano il viaggio e persino il rinnovo del
passaporto. Un rabbino disse che c'erano più probabilità di morire di
rapina o di crepacuore in Argentina che in Israele a causa di un
attentato. Molti gli credettero". Secondo l'Amia però la maggioranza
di quelli che partirono sono già tornati. Uno studio pubblicato
dall'associazione traccia il ritratto di una comunità fortemente
radicata nel Paese. "Io mi sento molto ebreo e molto argentino",
sintetizza un medico. "Non me ne andrò mai". La maggioranza - secondo
la ricerca - affolla le sinagoghe solo in occasione delle feste
ebraiche. Non si preoccupa troppo di mangiare kasher né che i figli
compiano il bar-mitzvà, il rito di passaggio alla vita adulta.
"L'identità ebraica qui è più legata alla ritualità che alla
religione", commenta il rabbino Daniel Goldman. La comunità non si è
schierata nelle ultime elezioni presidenziali. La vittoria trionfante
di Cristina Kirchner è stata salutata da molti con soddisfazione, ma
anche con quel fondo di diffidenza che ormai fa parte dell'indole degli
abitanti di Buenos Aires. "Se si vuole sopravvivere, bisogna abituarsi a
cavalcare le difficoltà, a non toccare mai terra", conclude Marcelo.
"Sono sempre disposto a imparare un nuovo lavoro, una nuova lingua. È
faticoso, ma essere pronti ad affrontare le difficoltà ti rende più
forte". Intanto, in strada un religioso guarda il sole che tramonta e
corre al Tempio. È tempo di celebrare il Sabato.
Michela Sechi
http://d.repubblica.it/dmemory/2007/12/01/attualita/attualita/109yid576109.html
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