Alle origini della nascita della Stato di Israele non vi è l’Olocausto ma il riconoscimento di un diritto e l’impegno esercitato dal movimento sionista
“Cosa c’entra l’Olocausto con Israele?”. Questa è la domanda che troppo spesso mi capita di sentire, quando sfilo per il Giorno della Memoria con la mia bandiera israeliana. E’ un quesito che deve preoccupare, poiché fa emergere come non sia stato ancora assimilato dalla cultura italiana un punto chiave per la comprensione della Shoah. Quando si parla dell’orrore dei campi di sterminio infatti, se viene spiegato perché ci si arrivò è assai raro che si spieghi come si sarebbe potuto evitare. Quando lo si fa, il “fattore Israele” è quasi sempre ignorato. Anche per questo succede che importanti personalità della politica e della cultura arrivino a sostenere - in perfetta buona fede - che Israele sia “figlio della Shoah”. Come se la nascita dello Stato Ebraico fosse stata una sorta di concessione fatta dalle potenze vincitrici (improvvisamente, dopo la II guerra mondiale, per il senso di colpa causato dai genocidio ebraico) e non, semmai, un riconoscimento imperdonabilmente tardivo di un diritto negato.
E’ grazie a questa favola della “gentile concessione” che si è potuta cancellare tutte l’opera che i sionisti avevano realizzato in Palestina prima del ’48. Ed è proprio su questo punto che la memoria storica di tanti va in tilt. Non c’è consapevolezza delle città, degli ospedali, delle università, della vita ebraica pulsante che già c’erano nei territori del Mandato britannico prima della nascita dello Stato.
E’ solo cancellando tutto questo che si può giungere alla conclusione che Israele sia una conseguenza della Shoah (e quindi pensare che i palestinesi siano vittime del senso di colpa europeo, che ha “improvvisamente” scaricato sul loro territorio uno Stato che non avrebbe avuto altrimenti motivo di nascere).
La realtà è invece opposta: già dal 1917 la Società delle Nazioni (poi divenuta Onu) aveva riconosciuto allo Stato ebraico il diritto di esistere. I sionisti avevano avuto ragione a lottare per creare Israele. Se non avessero dovuto subire tanti ostacoli, se fossero riusciti a costituire Israele prima, esso sarebbe stato certamente un efficace “antidoto” alla Shoah.
Si pensi ai tanti ebrei disperati che dal 1938 - quando il regime nazista iniziò a bruciare le sinagoghe - facevano la fila davanti alle ambasciate straniere per i pochi visti disponibili. Se ci fosse stata un’ambasciata israeliana, essa avrebbe spalancato le porte alle centinaia di migliaia di ebrei che chiedevano asilo, salvandoli da Auschwitz.
C’è poi la storia di un mio conoscente, scomparso proprio a gennaio, che aiuta meglio a capire quanto sia importante il legame tra la bandiera israeliana e la Shoah, anche dopo la II guerra mondiale.
Si chiamava Tuvia. Nato in Romania, giovanissimo fu catturato dai nazisti e deportato in un campo di concentramento, da dove riuscì miracolosamente a fuggire. Alla fine della guerra non aveva nulla: né una famiglia, né una casa dove tornare. L’unica speranza era partire per la Palestina per rifarsi una vita. Lo fece, ma da clandestino. L’Inghilterra infatti continuava a limitare fortemente, anche nel dopoguerra, l’immigrazione ebraica. La sua nave fu una delle tante che la marina britannica riuscì ad intercettare. Si ritrovò così internato, insieme a tanti scampati dai campi di concentramento nazisti, in un campo di raccolta a Cipro. Rimase detenuto in quell’isola fino al 1948, quando fu riconosciuta l’indipendenza di Israele.
Non si sottolineerà mai abbastanza come quell’anno cambiò la storia: finalmente esisteva un rifugio per tutti gli ebrei del mondo. Tuvia poté così arrivare nello Stato ebraico, dove coronò il suo sogno socialista: fu infatti tra i fondatori del kibbutz Hafikim, nel nord del paese. Fu proprio lì che lo incontrai, qualche anno fa, quando mi accennò la storia della sua vita. Gli chiesi perché non avesse mai scritto un libro con le sue memorie. Mi rispose: “chi lo leggerebbe? Qui in Israele quasi ogni famiglia ha una storia simile”.
È tragicamente vero. Israele è lo Stato ebraico, e in quanto tale è una nazione fatta da tanti profughi. I primi ad arrivare furono gli ebrei che fuggivano dai pogrom dell’Europa dell’est e della Russia, a cavallo tra l’800 e il ‘900. Poi fu la volta degli scampati alla II guerra mondiale. E ancora, nel 1948, furono quasi un milione i profughi ebrei che lasciarono i paesi arabi per raggiungere Israele. Dopo di loro, arrivarono poi le altre ondate migratorie: dagli ebrei etiopi a quelli russi, per limitarci alle principali.
Tutto questo non va dimenticato. E proprio la non conoscenza di questo pezzo di storia ha permesso la delegittimazione prima, e la demonizzazione poi, dello Stato ebraico.
Sono quindi due i motivi per cui la bandiera israeliana deve sventolare nel Giorno della Memoria: uno storico e l’altro simbolico. Per ricordare come la morte di tanti di quei sei milioni di ebrei si sarebbe potuta evitare e perché quella è la nostra bandiera, quella dei profughi più antichi e più moderni del mondo.
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