domenica 15 aprile 2012
Secondo voi, cosa significa “morte a Israele”?
Di Bradley Burston
Questa mattina mia figlia è andata a scuola preoccupata per la verifica di educazione civica. Quando è tornata a casa era preoccupata per i razzi con testate esplosive. A partire da questa settimana anche lei si trova nel raggio della loro gittata: la sua scuola è ora alla portata dei razzi palestinesi, che arrivano sempre più lontano e con cariche esplosive più letali di quelle cui eravamo abituati fino a poco tempo fa. Oggi producono esplosioni capaci di infrangere i vetri delle finestre fino al settimo piano degli edifici circostanti.
Mia figlia è un non-combattente disarmato: un dettaglio che dovrebbe essere di qualche rilevanza. In particolare dovrebbe essere rilevante agli occhi di quei progressisti che credono, giustamente, che gli inalienabili diritti degli esseri umani, soprattutto dei bambini, abbiamo chiara precedenza sui disegni strategici degli stati-nazione e sugli appetiti dei nazionalismi.
Dovrebbe essere rilevante anche quando i progressisti chiudono un occhio sui crimini di guerra commessi contro Israele, o se è per questo sui crimini di guerra commessi dalla Siria contro i siriani. Il presupposto è che i crimini “da Terzo Reich” commessi da Israele sarebbero di tale entità che qualunque
violenza contro i civili commessa dai nemici di Israele è trascurabile o giustificabile.
Ammetto che dev’essere più facile vedere le cose in questo modo quando le si guarda da una certa distanza. Per esempio, dalla regione di Akron, nell’Ohio (Usa), dove la scorsa settimana il professore di storia della Kent State University ha rumorosamente abbandonato una conferenza tenuta dal diplomatico israeliano Ishmael Khaldi – per inciso, il primo arabo israeliano della comunità beduina in servizio nel corpo diplomatico – gridando “Morte a Israele!”.
Il prof. Pinto non ha spiegato cosa intenda esattamente per “morte a Israele”. Né l’aveva fatto il procuratore dello Utah Robert Breeze quando, nel 2006, la municipalità di Salt Lake City gli aveva concesso il permesso comunale di allestire nella città un raduno di 14 ore intitolato “Morte a Israele”.
Da queste parti, tuttavia, dove gli appelli “morte a Israele” della Jihad Islamica arrivano impacchettati in acciaio e 40 libbre di esplosivo, il messaggio giunge acuminato come la scheggia di un razzo: un appello al genocidio. “Morte a Israele” significa morte agli israeliani. Significa morte ai membri della mia famiglia: una famiglia che da molto tempo, come tante altre in Israele, si adopera duramente, coerentemente e intensamente per il diritto dei palestinesi, sia musulmani che cristiani, di vivere nella sicurezza e nella sovranità, in un loro proprio paese. Ciò che vogliamo per noi stessi non è meno giusto.
È, in effetti, la stessa cosa: la libertà di vivere nella sicurezza e nella sovranità. Ammetto anche che, per alcuni progressisti, tutto si riduce a una questione di numeri. Mi domando come – e se – il prof. Pinto si sia rapportato alla morte, la scorsa settimana, di Moshe Ami, padre di 4 figli, ucciso da un razzo della Jihad Islamica: messo a morte su una strada di Ashkelon per aver commesso il crimine di “guidare in stato di israelianità”. Molto probabilmente il prof. Pinto è convinto che vi sia sproporzione e ingiustizia nel fatto che un solo israeliano sia morto negli attacchi di razzi della scorsa settimana, mentre i raid aerei delle Forze di Difesa israeliane su Gaza hanno ucciso dieci membri della Jihad Islamica e del Fronte Democratico di Liberazione della Palestina intenti a lanciare appunto quei razzi sulle città del sud, e ora anche del centro di Israele.
Dovrebbe essere rilevante esattamente come erano rilevanti – agli occhi di coloro che giustamente li condannarono con forza – gli eccessi e gli errori, in fin dei conti auto-distruttivi, delle Forze di Difesa israeliane che talvolta in passato hanno causato vittime civili.
Dovrebbe essere rilevante il fatto che la Jihad Islamica, testa di ponte diretta dell’Iran in Palestina, sa esattamente cosa significa “morte a Israele”. E lo s l’Iran.
Ma che paese è mai questo che Julio Pino e Robert Breeze ritengono degno di morire? Loro forse credono di conoscere Israele. Probabilmente pensano a una smisurata calamità, un’entità illegittima gonfia di odio per gli arabi, votata al furto della terra, dedita alle stragi di massa. È sicuramente più comodo per la propria coscienza politica vederla in questo modo.
Ma se i progressisti non riescono a vedere gli israeliani come persone, se non riescono a provare la stessa compassione e preoccupazione per i combattenti disarmati su entrambe i lati di un fronte di guerra, allora è tempo che diano una controllata alla loro ideologia perché fa acqua da molte le parti.
Il paese che Pino e Breeze vorrebbero vedere cancellato è di gran lunga più complesso e meritorio di quello che loro vogliono credere. È un paese in cui una chiara maggioranza della popolazione, martoriata da guerre e terrorismo, da dolori e frustrazioni, aspira ancora a dei negoziati che conducano a uno stato palestinese a fianco di Israele, e alla fine dell’occupazione.
L’insegnante di educazione civica di mia figlia, che insegna ai suoi allievi il diritto naturale di tutti i popoli alla libertà e alla sicurezza, dà crediti extra agli studenti che partecipano a manifestazioni e proteste. Potete star sicuri che ciascuno di quegli allievi, di sinistra di destra o di centro, sa esattamente cosa si intende per “morte a Israele”. E nessuno di loro, di sinistra di destra o di centro, lo approverà mai. Né lo deve fare.
(Da: Ha’aretz, 4.11.11)
http://www.israele.net/articolo,3278.htm
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento