domenica 15 aprile 2012

Le altre radici dell’antisemitismo

 
di Adriano Prosperi

Italia, agosto 1944: domanda: «Essere qui capitalista di Palestina?». Risposta: «Gli ebrei stanno lì». Il fascista italiano e il nazista tedesco si intendevano, parlavano una stessa lingua. Che era come tutte le lingue frutto di una storia. Comincia così l’ultimo libro di Michele Battini, Il socialismo degli imbecilli. Propaganda, falsificazione, persecuzione degli ebrei (Bollati Boringhieri, Torino, 2010, euro 18). Un libro importante. Sarebbe un vero peccato se il titolo allusivo depistasse qualcuno dei molti lettori che gli auguriamo. Perché qui si ricostruisce su basi nuove la lunga storia che porta a Auschwitz.
Ci sono due modi per cancellare dalla storia la Shoah: quello di negare semplicemente che sia esistita come fanno i riduzionisti e i negazionisti e quello di chi guarda a lei con riverenza e terrore come a un tumore maligno o a qualcosa di numinoso che eccede la ragione umana. Dunque sulla verità storica grava un’altissima posta in gioco.
Se non si assume la Shoah come qualcosa che appartiene alla nostra storia e che affonda le sue radici nel cuore dell’Europa cristiana ci si condanna a fare a meno della conoscenza storica. Non è certo per caso se nel secondo ’900 la nozione di realtà ha conosciuto tempi difficili con la riduzione della storia a narrazione soggettiva, a romanzo. Da lì è nata la messa in mora della prospettiva storica, per cui il senso del futuro si è annebbiato e si è vissuto il presente come "post-moderno" - un tempo di sopravvissuti, smarriti tra le rovine di quello che fu il mondo moderno. È per questo che ogni tentativo serio di affrontare la genesi dell’antisemitismo razzista non può che passare attraverso l’impresa di ricollocarlo nella storia reale.
Una impresa che è in corso e si è sviluppata in due tempi: nel primo tempo c’è stato il racconto dei superstiti, quel "bisogno di raccontare agli altri", che Primo Levi avvertì come un "impulso immediato e violento". La testimonianza dei superstiti e l’impegno di ricerca di storici come Raul Hilberg, Saul Friedländer e molti altri hanno eretto una tale mole di conoscenze da rendere insostenibile ogni forma di negazionismo e con essa ogni via di fuga privata dal peso del fardello che grava sulla coscienza dell’umanità.
Il secondo tempo è quello dell’indagine sulle radici profonde della Shoah nella storia e nella cultura europea. Un compito che ci sta ancora davanti. E il libro di Michele Battini è un passo decisivo in quella direzione. Qui la ricostruzione dei legami fra la tradizione antigiudaica dell’Europa cristiana e l’antisemitismo moderno si lega a una vigorosa difesa del principio di realtà come fondamento della conoscenza storica.
Quello che nel 1893 August Bebel aveva bollato come "socialismo degli imbecilli" era la maschera assunta dall’antisemitismo come anticapitalismo: un’ideologia che dopo avere alimentato a lungo il contesto intellettuale e politico francese col mito del complotto ebraico-protestante-massonico, trovò accoglienza nella base popolare e proletaria dei partiti socialisti incanalandosi poi nel "socialismo nazionale" hitleriano e nell’ideologia nazionalistica e corporativistica del fascismo. Lungo il percorso il fiume si era ingrossato: vi era confluita la millenaria tradizione dell’antigiudaismo cristiano veicolata da una Chiesa cattolica in guerra contro l’individualismo religioso, morale e economico figlio dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese.
Come ha scoperto Battini, fu Louis de Bonald che riportò in auge la dottrina di Bossuet sull’alleanza necessaria fra trono e altare legandola a uno dei più violenti attacchi contro gli ebrei tra quanti se ne videro nell’Europa della Restaurazione. Nella crisi della società di antico regime l’avvento del mercato e dell’individualismo economico si legò all’emancipazione degli ebrei.
L’incertezza sociale creata dal vorticoso mutamento della società accese un bisogno di radici e di corporazioni protettive. In questo contesto l’antica polemica cristiana contro l’usura poté essere riproposta in versione di attacco all’ebreo come forza devastante della finanza, colpevole della disgregazione sociale e della miseria. Dall’antico odio religioso si passò all’odio razziale: l’antigiudaismo cristiano aveva già in sé tutti gli ingredienti necessari.
Prese corpo così il complotto per l’eliminazione degli ebrei: un complotto vero mascherato e annunziato con la fabbricazione di un complotto falso, quei Protocolli dei Savi anziani di Sion che dovevano segnare le tappe dell’avvicinamento al genocidio. E se il primo terreno di incubazione del mito del complotto giudaico e massonico fu la Francia post-rivoluzionaria, lo ritroviamo poi nei paesi protestanti e in quelli cattolici con l’avanzata dello stato costituzionale e dei governi liberali. In Italia l’attacco "sacrilego" alla Roma papale scatenò i gesuiti della "Civiltà cattolica" contro la "guerra anticristiana" giudaicomassonica.
Questi fili si raccolsero nel socialismo antisemita e nell’anticapitalismo antiebraico che ritroviamo specialmente presenti in Italia e riassunti nel percorso politico e intellettuale di Paolo Orano e in quello di Mussolini. L’alleanza del fascismo con la Chiesa avvenne nel segno della trasformazione del Gesù ebraico in un Cristo romano, mentre la propaganda del regime e della Chiesa creava nel paese quei sentimenti di ostilità e di indifferenza che accolsero le leggi razziali del 1938.
L’esito è noto. E nel riconoscerne le profonde radici culturali e sociali prendiamo atto delle cause che hanno riportato a galla nel nostro tempo e specialmente nel nostro paese tentazioni razziste e antisemite serpeggianti nel linguaggio politico e in quello religioso. Il nemico non ha smesso di vincere - ha scritto Walter Benjamin - e finché vincerà nemmeno i morti saranno al sicuro. È per questo che nel lucido e appassionato "post scriptum" Michele Battini, sulle orme di Carlo Ginzburg, torna a riflettere sul principio di realtà: contro la strategia della disinformazione e della propaganda che ha portato ad Auschwitz, solo una storia che riaffermi nei fatti quel principio può riconciliarci con l’idea di verità e sviluppare una cultura della giustizia.

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